Quando una parola irrompe con forza nel linguaggio politico e giornalistico, imponendosi come la «grande allusione» che tutto spiega e contiene, è di norma inutile che gli studiosi ne raccomandino usi frugali e misurati. È quanto accaduto alla «globalizzazione», troppo spesso considerata un «evento» degli ultimi anni e non un lungo e delicato processo storico, che matura negli ultimi centocinquant’anni ed è, semplicemente, una delle ossature della contemporaneità. Tra Sedan e Serajevo ci si avviò, con una rapidità e un’intensità che apparvero inquietanti anche ai nostri predecessori, verso una società e un’economia planetaria. Questo libro ragiona su alcune delle principali trasformazioni culturali ed economiche di quel periodo, così lontano e al tempo stesso così simile al nostro, alla ricerca di una risposta al problema cruciale della percezione del mutamento: e se le percezioni sono così importanti, ebbene come reagirono i «contemporanei», in Europa e in America, all’«internazionalizzazione»? Come lessero e interpretarono i fenomeni più imponenti, ad esempio la nascita di un inedito mercato alimentare mondiale, o la finanziarizzazione dell’economia? Perché un’età di progressi materiali fino ad allora inconcepibili generò così profondi disagi culturali e politici? All’incirca tra il 1870 e la prima guerra mondiale, le percezioni di chi fu testimone delle immense trasformazioni del periodo hanno prodotto visioni, interpretazioni e periodizzazioni che la storiografia (e il senso comune storiografico) hanno fatto in gran parte proprie, dalla «Grande Depressione» alla Belle Epoque, dalla «crisi del positivismo» a quell’atmosfera di compiaciuta sospensione e attesa, venata di apprensione e scetticismo che – come i coevi – si ama chiamare fin de siècle. Ma le tracce lasciate dai nostri predecessori non vengono sterilizzate dalle passioni e dai convincimenti che le hanno generate solo perché hanno a lungo riposato in qualche archivio: quell’epoca fu invece fortemente unitaria, e la sua unitarietà nasce sia dai processi concreti che la nutrono, sia proprio dall’essere un’età abbacinante di trasformazioni il cui primo effetto è quello di dare una voce a tutti (o quasi). Un’età loquace ed eccitabile, dove la mondializzazione delle prospettive, i nuovi orizzonti planetari della politica e dell’economia produssero, accanto a conflitti e aggressioni, a terribili odi politici ed etnico-nazionali, anche concretissimi ma più silenziosi sforzi di cooperazione internazionale, per la pace e per l’arbitrato internazionale, per creare linguaggi comuni, in senso reale e figurato: è linguaggio comune il Volapük e l’Esperanto ma anche l’Unione postale o la Prime Meridian Conference di Washington del 1884, cui dobbiamo i fusi orari e un «tempo comune», o il gold standard, o le unioni monetarie. È linguaggio comune una ricerca scientifica e tecnologica che si dà criteri, codici, apparati, strumenti e strutture uniformi e internazionalmente validi e riconosciuti, generando quella che i «coevi» elegantemente definivano la International Mind. È linguaggio comune anche la spinta a un «internazionalismo religioso», comunque si voglia giudicare il ruolo delle chiese e lo straordinario, per dimensioni e vitalità, «espansionismo missionario» del periodo. Ora, l’esito della guerra non ha forse spazzato via l’interesse per questa parte di mondo, invitandoci un po’ troppo a ragionare in un’implicita prospettiva finalistica su premesse e cause della guerra, come se tutto avesse congiurato a quel fine?

Verso una società  planetaria. Alle origini della globalizzazione contemporanea (1870-1914)

FUMIAN, CARLO
2003

Abstract

Quando una parola irrompe con forza nel linguaggio politico e giornalistico, imponendosi come la «grande allusione» che tutto spiega e contiene, è di norma inutile che gli studiosi ne raccomandino usi frugali e misurati. È quanto accaduto alla «globalizzazione», troppo spesso considerata un «evento» degli ultimi anni e non un lungo e delicato processo storico, che matura negli ultimi centocinquant’anni ed è, semplicemente, una delle ossature della contemporaneità. Tra Sedan e Serajevo ci si avviò, con una rapidità e un’intensità che apparvero inquietanti anche ai nostri predecessori, verso una società e un’economia planetaria. Questo libro ragiona su alcune delle principali trasformazioni culturali ed economiche di quel periodo, così lontano e al tempo stesso così simile al nostro, alla ricerca di una risposta al problema cruciale della percezione del mutamento: e se le percezioni sono così importanti, ebbene come reagirono i «contemporanei», in Europa e in America, all’«internazionalizzazione»? Come lessero e interpretarono i fenomeni più imponenti, ad esempio la nascita di un inedito mercato alimentare mondiale, o la finanziarizzazione dell’economia? Perché un’età di progressi materiali fino ad allora inconcepibili generò così profondi disagi culturali e politici? All’incirca tra il 1870 e la prima guerra mondiale, le percezioni di chi fu testimone delle immense trasformazioni del periodo hanno prodotto visioni, interpretazioni e periodizzazioni che la storiografia (e il senso comune storiografico) hanno fatto in gran parte proprie, dalla «Grande Depressione» alla Belle Epoque, dalla «crisi del positivismo» a quell’atmosfera di compiaciuta sospensione e attesa, venata di apprensione e scetticismo che – come i coevi – si ama chiamare fin de siècle. Ma le tracce lasciate dai nostri predecessori non vengono sterilizzate dalle passioni e dai convincimenti che le hanno generate solo perché hanno a lungo riposato in qualche archivio: quell’epoca fu invece fortemente unitaria, e la sua unitarietà nasce sia dai processi concreti che la nutrono, sia proprio dall’essere un’età abbacinante di trasformazioni il cui primo effetto è quello di dare una voce a tutti (o quasi). Un’età loquace ed eccitabile, dove la mondializzazione delle prospettive, i nuovi orizzonti planetari della politica e dell’economia produssero, accanto a conflitti e aggressioni, a terribili odi politici ed etnico-nazionali, anche concretissimi ma più silenziosi sforzi di cooperazione internazionale, per la pace e per l’arbitrato internazionale, per creare linguaggi comuni, in senso reale e figurato: è linguaggio comune il Volapük e l’Esperanto ma anche l’Unione postale o la Prime Meridian Conference di Washington del 1884, cui dobbiamo i fusi orari e un «tempo comune», o il gold standard, o le unioni monetarie. È linguaggio comune una ricerca scientifica e tecnologica che si dà criteri, codici, apparati, strumenti e strutture uniformi e internazionalmente validi e riconosciuti, generando quella che i «coevi» elegantemente definivano la International Mind. È linguaggio comune anche la spinta a un «internazionalismo religioso», comunque si voglia giudicare il ruolo delle chiese e lo straordinario, per dimensioni e vitalità, «espansionismo missionario» del periodo. Ora, l’esito della guerra non ha forse spazzato via l’interesse per questa parte di mondo, invitandoci un po’ troppo a ragionare in un’implicita prospettiva finalistica su premesse e cause della guerra, come se tutto avesse congiurato a quel fine?
2003
9788879898423
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