In questo lavoro sono partito dalla constatazione che synodalitas - al pari di collegialitas - è termine assente dai documenti del Concilio Vaticano II, dal CIC e dal CCEO. Letteralmente sinodalità esprime una comunanza di cammino tra homines viatores ed in tal senso il concetto è più teologico che giuridico. Come principio di azione comunionale, la sinodalità sembra trovare il suo fondamento ultimo nella com-munio-communicatio ecclesiale. Se la sinodalità è principio di azione comunionale che crea colleganza (colligare, da cum [con] e ligare [legare]) di beni e di interessi nel perseguimento dello stesso fine (collega, da cum con e legare incaricare), non v'ha dubbio che un tale principio si ritrova in ogni espressione della collegialità canonica. Ma ciò mi ha consentito di notare come la sinodalità comprenda, superandoli, i limiti della collegialità canonicamente strutturata, ossia di quella che la Nota explicativa praevia al capitolo III di LG definisce testualmente con l'espressione di actus stricte collegialis (4°). Col mio lavoro mi sono chiesto se, con il termine di sinodalità, non si rappresenti ancora il tentativo, non sempre ben compreso, che già fu di Yves Congar, di esprimere concettualmente la realtà sottesa al termine sobornost. Ad onta degli indirizzi che additano la sobornost come modello della Chiesa-comunione, il concetto stesso è stato definito come equivoco. Esso infatti può sottolineare, da un lato, la dimensione essenzialmente collettiva della Chiesa. Dall’altro lato ne è possibile anche una definizione più rigorosamente canonica, imperniata sulla nozione di concilio come organo supremo della Chiesa, ma formato esclusivamente da vescovi. Ciò premesso, non mi è apparso dubbio, e nel libro ho cercato di dimostrarlo, come nel post-concilio il termine sinodalità, in dottrina, sia polisenso e che esso pertanto venga riferito sia alle manifestazioni della collegialità episcopale (sinodalità episcopale) che alle istituzioni latamente collettive che assecondano la partecipazione dei fedeli - presbiteri e laici - all’esercizio del munus hierarchicum. Naturalmente non mancano concezioni ecclesiologiche per le quali la sinodalità, come sinonimo di conciliarità, si manifesterebbe in una generale lex communionis - o koinonia - che dovrebbe trovare regolare espressione in momenti assembleari e collegialmente deliberativi, ad ogni livello ecclesiale. Siffatti momenti assembleari concretizzerebbero nella Chiesa un’applicazione, per analogia e non per identità, del metodo democratico, anche in conformità all’antico principio canonico quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Mi è sembrato invece credibile che gli istituti giuridici, inveramento di una corretta sinodalità, siano quelli che realizzano o comunque consentono l’ordinatio ad invicem dei due sacerdozi, nel rispetto della loro differenza essenziale e non accidentale; e ciò, non solo nell’ambito delle strutture gerarchiche, ma anche in quello delle manifestazioni associative (cf, in proposito, c. 223, § 1, CIC). Inoltre, al di fuori dei casi in cui di funzione consultiva parli espressamente la legislazione canonica, la concettualizzazione giuridica che meno inadeguatamente sembra esprimere il concurrere dei fedeli, non muniti di potestà gerarchica, all'azione dell'universitas, sembra quella che ne identifica l'operatività in termini, appunto, di funzione consultiva. A ciò va aggiunto che nell’universitas collegialis inaequali iure la posizione giuridica degli appartenenti è quella propria degli universi i cui diritti, dipendenti dall’appartenenza alla stessa universitas, non coincidono con l'esercizio di una potestas regiminis seu iurisdictionis. Da qui l’impossibilità di applicare all’universitas, in forma indiscriminata, il principio quod omnes tangit ab omnibus approbari debet. Il quale principio, come dice il c. 119, 3°, CIC, riguarda l’ipotesi degli atti collegiali le cui conseguenze giuridiche siano atte a toccare la sfera dei membri del collegio uti singuli; e ciò in conformità alla tradizione canonica. D’altro canto va pur notato come la nozione stessa di atto collegiale, ai sensi del c. 119, 2°, CIC, richieda che il suffragio prestato da ognuno sia di eguale valore giuridico, salvo l’eccezione per cui il praeses possa dirimere la parità col suo voto (che in tal caso vale doppio). Mi è apparso abitrario voler applicare sempre la disciplina generale dell’atto collegiale anche alle universitates personarum inaequali iure, nelle quali, mancando l’eguaglianza giuridica delle potestà e delle funzioni esercitate, lo stesso obbligo di audire consilium sussiste solo dove espressamente richiesto dal diritto. Posteriormente a questo libro sono usciti numerosi contributi sul tema; che appare, nell’ambito della materia, come uno di quelli oggi considerati costituzionali.

Dalla sinodalità  alla collegialità  nella codificazione latina

MIELE, MANLIO
2004

Abstract

In questo lavoro sono partito dalla constatazione che synodalitas - al pari di collegialitas - è termine assente dai documenti del Concilio Vaticano II, dal CIC e dal CCEO. Letteralmente sinodalità esprime una comunanza di cammino tra homines viatores ed in tal senso il concetto è più teologico che giuridico. Come principio di azione comunionale, la sinodalità sembra trovare il suo fondamento ultimo nella com-munio-communicatio ecclesiale. Se la sinodalità è principio di azione comunionale che crea colleganza (colligare, da cum [con] e ligare [legare]) di beni e di interessi nel perseguimento dello stesso fine (collega, da cum con e legare incaricare), non v'ha dubbio che un tale principio si ritrova in ogni espressione della collegialità canonica. Ma ciò mi ha consentito di notare come la sinodalità comprenda, superandoli, i limiti della collegialità canonicamente strutturata, ossia di quella che la Nota explicativa praevia al capitolo III di LG definisce testualmente con l'espressione di actus stricte collegialis (4°). Col mio lavoro mi sono chiesto se, con il termine di sinodalità, non si rappresenti ancora il tentativo, non sempre ben compreso, che già fu di Yves Congar, di esprimere concettualmente la realtà sottesa al termine sobornost. Ad onta degli indirizzi che additano la sobornost come modello della Chiesa-comunione, il concetto stesso è stato definito come equivoco. Esso infatti può sottolineare, da un lato, la dimensione essenzialmente collettiva della Chiesa. Dall’altro lato ne è possibile anche una definizione più rigorosamente canonica, imperniata sulla nozione di concilio come organo supremo della Chiesa, ma formato esclusivamente da vescovi. Ciò premesso, non mi è apparso dubbio, e nel libro ho cercato di dimostrarlo, come nel post-concilio il termine sinodalità, in dottrina, sia polisenso e che esso pertanto venga riferito sia alle manifestazioni della collegialità episcopale (sinodalità episcopale) che alle istituzioni latamente collettive che assecondano la partecipazione dei fedeli - presbiteri e laici - all’esercizio del munus hierarchicum. Naturalmente non mancano concezioni ecclesiologiche per le quali la sinodalità, come sinonimo di conciliarità, si manifesterebbe in una generale lex communionis - o koinonia - che dovrebbe trovare regolare espressione in momenti assembleari e collegialmente deliberativi, ad ogni livello ecclesiale. Siffatti momenti assembleari concretizzerebbero nella Chiesa un’applicazione, per analogia e non per identità, del metodo democratico, anche in conformità all’antico principio canonico quod omnes tangit ab omnibus probari debet. Mi è sembrato invece credibile che gli istituti giuridici, inveramento di una corretta sinodalità, siano quelli che realizzano o comunque consentono l’ordinatio ad invicem dei due sacerdozi, nel rispetto della loro differenza essenziale e non accidentale; e ciò, non solo nell’ambito delle strutture gerarchiche, ma anche in quello delle manifestazioni associative (cf, in proposito, c. 223, § 1, CIC). Inoltre, al di fuori dei casi in cui di funzione consultiva parli espressamente la legislazione canonica, la concettualizzazione giuridica che meno inadeguatamente sembra esprimere il concurrere dei fedeli, non muniti di potestà gerarchica, all'azione dell'universitas, sembra quella che ne identifica l'operatività in termini, appunto, di funzione consultiva. A ciò va aggiunto che nell’universitas collegialis inaequali iure la posizione giuridica degli appartenenti è quella propria degli universi i cui diritti, dipendenti dall’appartenenza alla stessa universitas, non coincidono con l'esercizio di una potestas regiminis seu iurisdictionis. Da qui l’impossibilità di applicare all’universitas, in forma indiscriminata, il principio quod omnes tangit ab omnibus approbari debet. Il quale principio, come dice il c. 119, 3°, CIC, riguarda l’ipotesi degli atti collegiali le cui conseguenze giuridiche siano atte a toccare la sfera dei membri del collegio uti singuli; e ciò in conformità alla tradizione canonica. D’altro canto va pur notato come la nozione stessa di atto collegiale, ai sensi del c. 119, 2°, CIC, richieda che il suffragio prestato da ognuno sia di eguale valore giuridico, salvo l’eccezione per cui il praeses possa dirimere la parità col suo voto (che in tal caso vale doppio). Mi è apparso abitrario voler applicare sempre la disciplina generale dell’atto collegiale anche alle universitates personarum inaequali iure, nelle quali, mancando l’eguaglianza giuridica delle potestà e delle funzioni esercitate, lo stesso obbligo di audire consilium sussiste solo dove espressamente richiesto dal diritto. Posteriormente a questo libro sono usciti numerosi contributi sul tema; che appare, nell’ambito della materia, come uno di quelli oggi considerati costituzionali.
2004
9788813258313
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/1353359
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