Il Novecento sarà ricordato, anche, per aver segnato il passaggio epocale dall’omoglossia culturale (fondatrice di un ordine invulnerabile, garanzia di monoreferenzialità e della persistenza delle province finite di significato, in quanto strutture stabili) all’eteroglossia (in cui l’ordine viene costruito su valori rinegoziabili socialmente e secondo criteri fuzzy, a fondamento di province finitime di significato, dell’oltrepassamento delle barriere culturali, di processi, del superamento di paradigmi provvisori) chiave di ingresso in zone franche/grigie (es. il dolore per Dostoevskij come transito dal nichilismo alla positività del nuovo; il troiae lusus come rituale di fondazione e di esorcizzazione della gelosia divina). Al tempo stesso, la vecchia arte monoreferenziale, definita dall’omoglossia in quanto leggibile per secoli come sua sottospecie culturale, si avvia verso la pluralità linguistico-espressiva dell’eteroglossia. Il rischio degli eccessi ermeneutici (il dissolversi del testo nel mutare del significato) e l’emergere dei processi di globalizzazione (che, dall’economia, giungono ad investire tutte le forme della cultura) conducono anche l’arte ad un bivio tra localismo e globalizzazione (cross and global art) in cui sia implicito il concetto di erranza culturale ed etnica, nonché una curiosità intellettuale non di maniera. Ci si rende conto sempre più chiaramente che la compenetrazione di mondi culturali diversi e l’instaurarsi di una comunicazione al loro interno si può ottenere più agevolmente per via emotivo-percettiva che razionale. Il rumore ingenerato dall’eccesso di informazione è di converso evitabile con il ricorso a forme comunicative non eccessive; e non è da sottovalutare la possibilità di creare forme di arte popolare, musica, teatro e poesia incastonandole in una nuova cornice di silenzio: non rotto da messaggi stereotipi, esso darà nuovo risalto all’arte. Il significato di un’arte inscritta in mondi sempre più complessi diventa tuttavia sociologicamente leggibile ad alcune condizioni: 1) che si rinunci alla pretesa euristica di un ordine unificatore, cui appellarsi per dare ad ogni opera un’etichetta precisa: che soddisfa meno le esigenze ermeneutiche legate alle opere che i criteri delle vecchie estetiche idealistiche; 2) che si metta da parte la certezza di poter contare ancora sull’esistenza di province finite di significato e ci si disponga ad andar oltre: non per finire alla deriva, quanto per cercare nuovi territori di incontro-incrocio, province finitime di significato, dove l’ordine si crea e si distrugge all’insegna di paradigmi finalmente rivedibili; 3) che si adotti una logica fuzzy, con la sostituzione del bianco o nero con il grigio o il chiaroscuro e si passi dalla bivalenza alla polivalenza.; 4) che la creazione si concepisca finalmente come ri-creazione, come apertura a nuove possibilità.

Epistemologia estetica ed epistemologia sociologica

VERDI, LAURA
2000

Abstract

Il Novecento sarà ricordato, anche, per aver segnato il passaggio epocale dall’omoglossia culturale (fondatrice di un ordine invulnerabile, garanzia di monoreferenzialità e della persistenza delle province finite di significato, in quanto strutture stabili) all’eteroglossia (in cui l’ordine viene costruito su valori rinegoziabili socialmente e secondo criteri fuzzy, a fondamento di province finitime di significato, dell’oltrepassamento delle barriere culturali, di processi, del superamento di paradigmi provvisori) chiave di ingresso in zone franche/grigie (es. il dolore per Dostoevskij come transito dal nichilismo alla positività del nuovo; il troiae lusus come rituale di fondazione e di esorcizzazione della gelosia divina). Al tempo stesso, la vecchia arte monoreferenziale, definita dall’omoglossia in quanto leggibile per secoli come sua sottospecie culturale, si avvia verso la pluralità linguistico-espressiva dell’eteroglossia. Il rischio degli eccessi ermeneutici (il dissolversi del testo nel mutare del significato) e l’emergere dei processi di globalizzazione (che, dall’economia, giungono ad investire tutte le forme della cultura) conducono anche l’arte ad un bivio tra localismo e globalizzazione (cross and global art) in cui sia implicito il concetto di erranza culturale ed etnica, nonché una curiosità intellettuale non di maniera. Ci si rende conto sempre più chiaramente che la compenetrazione di mondi culturali diversi e l’instaurarsi di una comunicazione al loro interno si può ottenere più agevolmente per via emotivo-percettiva che razionale. Il rumore ingenerato dall’eccesso di informazione è di converso evitabile con il ricorso a forme comunicative non eccessive; e non è da sottovalutare la possibilità di creare forme di arte popolare, musica, teatro e poesia incastonandole in una nuova cornice di silenzio: non rotto da messaggi stereotipi, esso darà nuovo risalto all’arte. Il significato di un’arte inscritta in mondi sempre più complessi diventa tuttavia sociologicamente leggibile ad alcune condizioni: 1) che si rinunci alla pretesa euristica di un ordine unificatore, cui appellarsi per dare ad ogni opera un’etichetta precisa: che soddisfa meno le esigenze ermeneutiche legate alle opere che i criteri delle vecchie estetiche idealistiche; 2) che si metta da parte la certezza di poter contare ancora sull’esistenza di province finite di significato e ci si disponga ad andar oltre: non per finire alla deriva, quanto per cercare nuovi territori di incontro-incrocio, province finitime di significato, dove l’ordine si crea e si distrugge all’insegna di paradigmi finalmente rivedibili; 3) che si adotti una logica fuzzy, con la sostituzione del bianco o nero con il grigio o il chiaroscuro e si passi dalla bivalenza alla polivalenza.; 4) che la creazione si concepisca finalmente come ri-creazione, come apertura a nuove possibilità.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/1374075
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