I profili problematici dell’infedeltà patrimoniale si sono arricchiti, dopo gli interventi di riforma contenuti nel d.lgs. n.61/2002 e nel d.lgs. n.37/2004, di prospettive non immaginabili qualche decennio fa, al tempo della prima compiuta ricognizione scientifica ad opera della dottrina italiana. I tratti caratterizzanti dell’infedeltà patrimoniale possono essere individuati nell' "impiego di beni affidati all’altrui gestione in contrasto oggettivo con l’interesse del titolare ed in funzione del perseguimento di scopi direttamente o indirettamente riferibili alla sfera di interessi dell’amministratore”. Il fenomeno dell’infedeltà è assai mutato rispetto al tempo in cui un’autorevole opinione ne rimarcava la rilevanza, compendiandola nella “profonda necessità sentita dalla coscienza giuridica di non affidare soltanto alle garanzie civili, spesso illusorie e inefficaci, il compito di assicurare dai più gravi abusi il patrimonio di coloro che, per necessità assoluta o contingente o per un apprezzabile criterio di utilità, devono lasciare in tutto o in parte ad altre persone la condotta dei loro affari” (NUVOLONE, L’infedeltà patrimoniale nel diritto penale, Milano, 1941, 2). Da tale insegnamento dottrinale emerge in modo nitido un contrasto fra sfere di interessi individuali, mentre oggi entrano in gioco interessi sicuramente più articolati e di maggior peso come quelli delle società commerciali, e di conseguenza superiore è l’incidenza politico-criminale degli attacchi portati ai patrimoni altrui. E’ proprio nelle imprese organizzate in forma societaria che i comportamenti infedeli hanno conosciuto una crescita ragguardevole, assumendo i connotati dell’abuso di poteri amministrativi o di controllo nello svolgimento dell’attività economica. Tale fenomeno rappresenta invero uno dei più rilevanti processi patologici innescati dalla dissociazione fra controllo della ricchezza e proprietà e, al contempo, una delle ipotesi più complesse da trasfondere in una fattispecie incriminatrice. Senza ombra di dubbio, dunque, un terreno fertile su cui attecchiscono le condotte infedeli è quello delle imprese collettive. Ma esso non è il solo. All’attenzione degli studiosi è anche la nuova regolamentazione dei mercati finanziari, contenuta prima in un’alluvione di norme legislative e poi in un Testo unico improntato ad organicità. A frapporsi tra l’accumulazione della ricchezza e il suo utilizzo in attività produttive, nell’arco dell’ultimo trentennio sono comparse sulla scena finanziaria nuove attività di intermediazione professionale in relazione alle quali, può prospettarsi l’insorgenza di un conflitto d’interessi non più solo interno all’ente, bensì anche esterno allo stesso. Più precisamente, oltre al conflitto fra soggetto investito del potere gestionale ed ente, può manifestarsi anche quello tra ente ed eventuale clientela. Il fenomeno di cosiddetta finanziarizzazione dell’economia, ovvero quel crescente sviluppo di forme di intermediazione professionale tra l’offerta di risparmio ed il suo impiego imprenditoriale, cui poco sopra abbiamo accennato, porta con sé l’innegabile rischio di una gestione interessata dei patrimoni altrui, considerati come ricchezza non più ben individuata nella sua appartenenza, bensì come ricchezza diffusa in una collettività non determinata. Accanto all’esigenza di tutela del patrimonio individuale o della singola società, si colloca pertanto quella intesa alla protezione dei patrimoni diffusi o, per meglio dire, del risparmio; in altre parole potremmo sottolineare, in chiave politico-criminale, che ad emergere è un’istanza di tutela del patrimonio in funzione non soltanto statica, e cioè di proprietà ex art. 42 Cost., ma anche dinamica, ovverosia nel senso di investimento ex art. 47 Cost. I modelli di protezione che si delineano come necessari sono pertanto due: l’uno pubblicistico e l’altro privatistico. Il primo a difesa del mercato mobiliare, e perciò dei risparmiatori-investitori, contro comportamenti infedeli tenuti dall’organismo societario verso la clientela; il secondo a tutela dei soci e della compagine sociale nei confronti di condotte illecite originate all’interno di quest’ultima, dai suoi organi. Le linee di un possibile approfondimento della tematica delle infedeltà patrimoniali nella gestione d’impresa passano quindi attraverso la valorizzazione dell’uno o dell’altro dei due momenti di tutela illustrati. Essi sono, per certo, complementari fra loro. Un sistema difensivo adeguato deve essere idoneo a proteggere il titolare di beni affidati all’altrui amministrazione da comportamenti del manager che, nell’espletare i propri compiti, faccia prevalere l’interesse proprio sia su quello della società di appartenenza (conflitto interno), sia su quello dei risparmiatori, che all’attività dell’ente hanno affidato la gestione della propria ricchezza (conflitto esterno). Nell’ambito dei due profili di tutela poc’anzi delineati, già ad un primo approccio con le problematiche insite nei reati di infedeltà patrimoniale, premettiamo da subito che l’orizzonte verso il quale la pubblicazione è orientata è quello del conflitto di interessi, rivisitato alla luce del delitto previsto e punito dall’art. 136 Tub e dei rapporti di quest’ultimo con i nuovi artt. 2634-2635 c.c. Siamo sollecitati in questa direzione dalle istanze riformatrici della materia che, più volte emerse nell’ultimo ventennio, ora hanno preso significativa consistenza. De iure condito l’infedeltà interna dei gestori si propone come chiave di lettura di fattispecie criminose che risalgono al ramo storico del nostro diritto penale bancario. Intendiamo riferirci, come detto, all’art. 136 Tub che sanziona gli illeciti rapporti patrimoniali del gestore con l’istituto di credito cui appartiene. Si tratta di una norma penale nella quale la marcata formalizzazione del precetto finisce col porre nell’ombra l’interesse sostanziale oggetto di tutela, che nondimeno il legislatore italiano già in tempi lontani ha ritenuto meritevole di considerazione. In siffatto contesto abbiamo pensato che soffermarci su di una fattispecie “angusta” come il delitto di illeciti rapporti patrimoniali con la banca – ma non di meno oggetto di interesse da parte del legislatore con il recente d.lgs. n.37/2004 – risulti utile per mettere in luce il bisogno di tutela al quale l’incriminazione cerca di offrire una risposta che, forse, i nuovi delitti di infedeltà frutto della riforma penal-societaria (pur applicabili alla realtà bancaria in forza dell’art. 135 Tub) non hanno proposto. Del tutto consapevoli che il reato di cui all’art. 136 Tub è strutturato in modo tale da rendere “problematico” ravvisare nel patrimonio della società il bene tutelato, riteniamo non di meno che su tale oggetto giuridico debba rimanere incentrata l’analisi di esso. Solamente tramite la prospettiva patrimonialistica, infatti, è possibile conservare al bene protetto almeno la sua funzione critica. Una tale analisi viene svolta dopo avere scandagliato in dettaglio gli elementi strutturali della fattispecie. In sostanza, dopo rilievi generali, coerentemente con essi viene avviato lo studio del delitto prescelto ripercorrendone anzitutto la “storia”, in quanto essa ulteriormente denota il profilo di tutela che abbiamo tratteggiato. Segue l’esame della fattispecie in tutti i suoi aspetti caratterizzanti, l’elemento oggettivo e soggettivo, la considerazione del bene protetto, la nozione di gruppo proposta dal legislatore penal-bancario e, conseguentemente, l’ambito applicativo del precetto nel contesto delle operazioni infragruppo.

L'infedeltà patrimoniale interna degli operatori bancari

ZAMBUSI, ANGELO
2005

Abstract

I profili problematici dell’infedeltà patrimoniale si sono arricchiti, dopo gli interventi di riforma contenuti nel d.lgs. n.61/2002 e nel d.lgs. n.37/2004, di prospettive non immaginabili qualche decennio fa, al tempo della prima compiuta ricognizione scientifica ad opera della dottrina italiana. I tratti caratterizzanti dell’infedeltà patrimoniale possono essere individuati nell' "impiego di beni affidati all’altrui gestione in contrasto oggettivo con l’interesse del titolare ed in funzione del perseguimento di scopi direttamente o indirettamente riferibili alla sfera di interessi dell’amministratore”. Il fenomeno dell’infedeltà è assai mutato rispetto al tempo in cui un’autorevole opinione ne rimarcava la rilevanza, compendiandola nella “profonda necessità sentita dalla coscienza giuridica di non affidare soltanto alle garanzie civili, spesso illusorie e inefficaci, il compito di assicurare dai più gravi abusi il patrimonio di coloro che, per necessità assoluta o contingente o per un apprezzabile criterio di utilità, devono lasciare in tutto o in parte ad altre persone la condotta dei loro affari” (NUVOLONE, L’infedeltà patrimoniale nel diritto penale, Milano, 1941, 2). Da tale insegnamento dottrinale emerge in modo nitido un contrasto fra sfere di interessi individuali, mentre oggi entrano in gioco interessi sicuramente più articolati e di maggior peso come quelli delle società commerciali, e di conseguenza superiore è l’incidenza politico-criminale degli attacchi portati ai patrimoni altrui. E’ proprio nelle imprese organizzate in forma societaria che i comportamenti infedeli hanno conosciuto una crescita ragguardevole, assumendo i connotati dell’abuso di poteri amministrativi o di controllo nello svolgimento dell’attività economica. Tale fenomeno rappresenta invero uno dei più rilevanti processi patologici innescati dalla dissociazione fra controllo della ricchezza e proprietà e, al contempo, una delle ipotesi più complesse da trasfondere in una fattispecie incriminatrice. Senza ombra di dubbio, dunque, un terreno fertile su cui attecchiscono le condotte infedeli è quello delle imprese collettive. Ma esso non è il solo. All’attenzione degli studiosi è anche la nuova regolamentazione dei mercati finanziari, contenuta prima in un’alluvione di norme legislative e poi in un Testo unico improntato ad organicità. A frapporsi tra l’accumulazione della ricchezza e il suo utilizzo in attività produttive, nell’arco dell’ultimo trentennio sono comparse sulla scena finanziaria nuove attività di intermediazione professionale in relazione alle quali, può prospettarsi l’insorgenza di un conflitto d’interessi non più solo interno all’ente, bensì anche esterno allo stesso. Più precisamente, oltre al conflitto fra soggetto investito del potere gestionale ed ente, può manifestarsi anche quello tra ente ed eventuale clientela. Il fenomeno di cosiddetta finanziarizzazione dell’economia, ovvero quel crescente sviluppo di forme di intermediazione professionale tra l’offerta di risparmio ed il suo impiego imprenditoriale, cui poco sopra abbiamo accennato, porta con sé l’innegabile rischio di una gestione interessata dei patrimoni altrui, considerati come ricchezza non più ben individuata nella sua appartenenza, bensì come ricchezza diffusa in una collettività non determinata. Accanto all’esigenza di tutela del patrimonio individuale o della singola società, si colloca pertanto quella intesa alla protezione dei patrimoni diffusi o, per meglio dire, del risparmio; in altre parole potremmo sottolineare, in chiave politico-criminale, che ad emergere è un’istanza di tutela del patrimonio in funzione non soltanto statica, e cioè di proprietà ex art. 42 Cost., ma anche dinamica, ovverosia nel senso di investimento ex art. 47 Cost. I modelli di protezione che si delineano come necessari sono pertanto due: l’uno pubblicistico e l’altro privatistico. Il primo a difesa del mercato mobiliare, e perciò dei risparmiatori-investitori, contro comportamenti infedeli tenuti dall’organismo societario verso la clientela; il secondo a tutela dei soci e della compagine sociale nei confronti di condotte illecite originate all’interno di quest’ultima, dai suoi organi. Le linee di un possibile approfondimento della tematica delle infedeltà patrimoniali nella gestione d’impresa passano quindi attraverso la valorizzazione dell’uno o dell’altro dei due momenti di tutela illustrati. Essi sono, per certo, complementari fra loro. Un sistema difensivo adeguato deve essere idoneo a proteggere il titolare di beni affidati all’altrui amministrazione da comportamenti del manager che, nell’espletare i propri compiti, faccia prevalere l’interesse proprio sia su quello della società di appartenenza (conflitto interno), sia su quello dei risparmiatori, che all’attività dell’ente hanno affidato la gestione della propria ricchezza (conflitto esterno). Nell’ambito dei due profili di tutela poc’anzi delineati, già ad un primo approccio con le problematiche insite nei reati di infedeltà patrimoniale, premettiamo da subito che l’orizzonte verso il quale la pubblicazione è orientata è quello del conflitto di interessi, rivisitato alla luce del delitto previsto e punito dall’art. 136 Tub e dei rapporti di quest’ultimo con i nuovi artt. 2634-2635 c.c. Siamo sollecitati in questa direzione dalle istanze riformatrici della materia che, più volte emerse nell’ultimo ventennio, ora hanno preso significativa consistenza. De iure condito l’infedeltà interna dei gestori si propone come chiave di lettura di fattispecie criminose che risalgono al ramo storico del nostro diritto penale bancario. Intendiamo riferirci, come detto, all’art. 136 Tub che sanziona gli illeciti rapporti patrimoniali del gestore con l’istituto di credito cui appartiene. Si tratta di una norma penale nella quale la marcata formalizzazione del precetto finisce col porre nell’ombra l’interesse sostanziale oggetto di tutela, che nondimeno il legislatore italiano già in tempi lontani ha ritenuto meritevole di considerazione. In siffatto contesto abbiamo pensato che soffermarci su di una fattispecie “angusta” come il delitto di illeciti rapporti patrimoniali con la banca – ma non di meno oggetto di interesse da parte del legislatore con il recente d.lgs. n.37/2004 – risulti utile per mettere in luce il bisogno di tutela al quale l’incriminazione cerca di offrire una risposta che, forse, i nuovi delitti di infedeltà frutto della riforma penal-societaria (pur applicabili alla realtà bancaria in forza dell’art. 135 Tub) non hanno proposto. Del tutto consapevoli che il reato di cui all’art. 136 Tub è strutturato in modo tale da rendere “problematico” ravvisare nel patrimonio della società il bene tutelato, riteniamo non di meno che su tale oggetto giuridico debba rimanere incentrata l’analisi di esso. Solamente tramite la prospettiva patrimonialistica, infatti, è possibile conservare al bene protetto almeno la sua funzione critica. Una tale analisi viene svolta dopo avere scandagliato in dettaglio gli elementi strutturali della fattispecie. In sostanza, dopo rilievi generali, coerentemente con essi viene avviato lo studio del delitto prescelto ripercorrendone anzitutto la “storia”, in quanto essa ulteriormente denota il profilo di tutela che abbiamo tratteggiato. Segue l’esame della fattispecie in tutti i suoi aspetti caratterizzanti, l’elemento oggettivo e soggettivo, la considerazione del bene protetto, la nozione di gruppo proposta dal legislatore penal-bancario e, conseguentemente, l’ambito applicativo del precetto nel contesto delle operazioni infragruppo.
2005
8813265123
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.
Pubblicazioni consigliate

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/1471935
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact