La riforma dei reati societari contenuta nel d.lgs. n.61/2002 ha rappresentato l’occasione per introdurre nell’ordinamento italiano, e precisamente nei riscritti articoli 2634 e 2635 c.c., due fattispecie – sia pur settoriali – tese ad arginare il fenomeno dell’infedeltà patrimoniale, che per lungo tempo ha richiamato l’attenzione e le sollecitazioni della dottrina senza tuttavia innescare altrettanto operoso interessamento da parte del legislatore. Nonostante l’intonazione ad ampio respiro assunta in modo peculiare dalla rubrica dell’art.2634 (Infedeltà patrimoniale) e più limitatamente da quella dell’art.2635 (Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità), ci troviamo al cospetto di un intervento di settore, circoscritto e mirato a sanare alcune congiunture patologiche che possono insorgere nelle società commerciali. La pubblicazione cerca di saggiare in particolare la portata dell’art.2635 per metterne in luce alcuni profili e risvolti problematici. Viene esaminato il background nel quale affonda le radici il delitto di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, vale a dire il progetto Mirone e le istanze espresse in ambito comunitario e internazionale che quel progetto aveva parzialmente recepite. Nel testo licenziato dalla Commissione Mirone la fattispecie di infedeltà qualificata era stata pensata quale norma avamposto rispetto a quella enucleata all’art.2634: in essa, oltre a ravvisarsi un tratto specializzante rappresentato dalla presenza di un pactum sceleris – dazione o promessa di utilità in cambio di compimento od omissione di atti, in violazione degli obblighi inerenti determinati uffici societari – si riscontrava altresì l’anticipazione della soglia di tutela allo stadio del pericolo per il bene giuridico protetto, ovvero il patrimonio sociale. La specialità del precetto era apprezzabile anche per la proposta di titolarlo con il nomen iuris “corruzione”, in armonia con quella direttrice di tutela, manifestatasi in ambito europeo, intesa ad ordire una trama di rimedi contro il fenomeno corruttivo in materia economica e tra privati. Il riferimento è mirato in particolar modo all’Azione comune europea sulla corruzione nel settore privato adottata il 22 dicembre 1998. Essa è orientata a reprimere il comportamento di <<qualsiasi dipendente o altra persona nel momento in cui svolga funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per o per conto di una persona fisica o giuridica operante nel settore privato>> (art.1), allorché il predetto soggetto attivo <<intenzionalmente sollecita o riceve, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, ovvero accetta la promessa di tale vantaggio per sé o per un terzo, per compiere od omettere un atto, in violazione di un dovere>>; e invoca la risposta punitiva quanto meno per le <<condotte che comportino o possano comportare distorsioni di concorrenza come minimo nell’ambito del mercato comune e producano o possano produrre danni economici a terzi attraverso una non corretta aggiudicazione o una non corretta esecuzione di un contratto>> (artt.2-3). Anche ad un primo sommario raffronto tra l’art.2635 e la predetta Azione comune balza in modo immediato all’evidenza come la norma introdotta dal d.lgs. n.61/2002 non sia affatto idonea a soddisfare tutti gli standard di tutela contemplati dall’Azione. In primo luogo, il precetto che ha fatto ingresso nel nostro ordinamento non abbraccia l’ampio novero di soggetti attivi della previsione comunitaria (qualsiasi dipendente o altra persona nel momento in cui svolga funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per o per conto di una persona fisica o giuridica operante nel settore privato): sia perché riguarda solo alcuni autori qualificati (amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori, nonché responsabili della revisione), sia perché richiede che tutti gravitino nell’orbita delle società commerciali, così negando rilevanza a quei comportamenti infedeli – pur considerati dall’Azione comune – posti in essere ai danni di persone fisiche operanti nel settore privato. Quanto poi all’oggettività tutelata dall’art.2635, non emerge il benché minimo intendimento di proteggere il bene costituito dalla libera e leale concorrenza, né sussiste alcuna traccia esplicita che si riporti alla materia dell’aggiudicazione o dell’esecuzione di un contratto. Su tale versante la norma italiana si colloca in controtendenza rispetto all’Azione comunitaria. Lo strumento europeo si pone infatti l’obiettivo minimo di sanzionare quelle condotte che comportino una non corretta aggiudicazione o esecuzione di un contratto. L’art. 2635 amplia invece il suo orizzonte, includendo nella propria sfera di prensione il compimento o l’omissione di qualsiasi atto in violazione degli obblighi inerenti a determinati uffici societari, salvo poi sviluppare in altra direzione la linea di tutela accordata dal precetto: nel mentre l’Azione è tesa a prevenire la produzione, anche solo potenziale, di danni economici a terzi, la nostra incriminazione è vòlta invece ad evitare danni alla società cui appartiene o con cui è in relazione il soggetto attivo. Non è dato scorgere, vuoi nella legge delega n.366/2001, vuoi nella relazione al successivo e testé menzionato decreto legislativo, alcun accenno alla volontà di attuare all’Azione comune. Per contro, allorché si era pensato di dar seguito ad impegni internazionali, il richiamo ad essi era esplicito: e bene ne dà conto proprio il progetto Mirone, che in modo espresso faceva appunto riferimento alle fonti comunitarie e alla volontà di darvi attuazione. In considerazione di ciò non pare fuori luogo affermare che le istanze formulate in sede europea permangono, a tutt’oggi, inevase dal legislatore italiano. Altro profilo esaminato nella pubblicazione è il seguente: l’intervento riformatore calibrato dal progetto Mirone, oltre ad avere una ben precisa ragion d’essere, conferiva una significativa sfera d’autonomia all’infedeltà qualificata. Se, da un lato, l’art.2634 era concepito per contrastare quei comportamenti (atti di disposizione dei beni sociali) posti in essere in presenza di conflitto d’interessi tra gestore e società con il corredo di coefficiente psicologico (dolo specifico, al quale il d.lgs. n.61/2002 ha poi aggiunto anche quello intenzionale) e offesa al patrimonio sociale prescritti dalla norma, dall’altro, l’art.2635 era rivolto a sanzionare il pactum sceleris (dazione o promessa di utilità contro compimento od omissione di atti in violazione degli obblighi d’ufficio) tra gestore e terzo. Il tutto sfalsando i piani d’azione delle due fattispecie: la prima operativa con l’evento dannoso al patrimonio, la seconda attestata alla soglia del pericolo di lesione per il medesimo bene giuridico protetto. Ulteriore riflessione viene svolta con riguardo ai modelli di intervento fruibili per contrastare penalmente nel settore privato l’infedeltà qualificata dal pactum sceleris, in considerazione del bene giuridico da proteggere e della soglia di tutela da apprestare; ciò, per poi verificare a quale modello si è ispirato il legislatore della riforma societaria e in che misura sia possibile rapportare l’art.2635 c.c. all’art.319 c.p. in punto di corruzione propria di pubblico ufficiale.

Infedeltà  a seguito di dazione o promessa di utilità  (Art. 2635 C.c.): alcuni aspetti problematici

ZAMBUSI, ANGELO
2005

Abstract

La riforma dei reati societari contenuta nel d.lgs. n.61/2002 ha rappresentato l’occasione per introdurre nell’ordinamento italiano, e precisamente nei riscritti articoli 2634 e 2635 c.c., due fattispecie – sia pur settoriali – tese ad arginare il fenomeno dell’infedeltà patrimoniale, che per lungo tempo ha richiamato l’attenzione e le sollecitazioni della dottrina senza tuttavia innescare altrettanto operoso interessamento da parte del legislatore. Nonostante l’intonazione ad ampio respiro assunta in modo peculiare dalla rubrica dell’art.2634 (Infedeltà patrimoniale) e più limitatamente da quella dell’art.2635 (Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità), ci troviamo al cospetto di un intervento di settore, circoscritto e mirato a sanare alcune congiunture patologiche che possono insorgere nelle società commerciali. La pubblicazione cerca di saggiare in particolare la portata dell’art.2635 per metterne in luce alcuni profili e risvolti problematici. Viene esaminato il background nel quale affonda le radici il delitto di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità, vale a dire il progetto Mirone e le istanze espresse in ambito comunitario e internazionale che quel progetto aveva parzialmente recepite. Nel testo licenziato dalla Commissione Mirone la fattispecie di infedeltà qualificata era stata pensata quale norma avamposto rispetto a quella enucleata all’art.2634: in essa, oltre a ravvisarsi un tratto specializzante rappresentato dalla presenza di un pactum sceleris – dazione o promessa di utilità in cambio di compimento od omissione di atti, in violazione degli obblighi inerenti determinati uffici societari – si riscontrava altresì l’anticipazione della soglia di tutela allo stadio del pericolo per il bene giuridico protetto, ovvero il patrimonio sociale. La specialità del precetto era apprezzabile anche per la proposta di titolarlo con il nomen iuris “corruzione”, in armonia con quella direttrice di tutela, manifestatasi in ambito europeo, intesa ad ordire una trama di rimedi contro il fenomeno corruttivo in materia economica e tra privati. Il riferimento è mirato in particolar modo all’Azione comune europea sulla corruzione nel settore privato adottata il 22 dicembre 1998. Essa è orientata a reprimere il comportamento di <> (art.1), allorché il predetto soggetto attivo <>; e invoca la risposta punitiva quanto meno per le <> (artt.2-3). Anche ad un primo sommario raffronto tra l’art.2635 e la predetta Azione comune balza in modo immediato all’evidenza come la norma introdotta dal d.lgs. n.61/2002 non sia affatto idonea a soddisfare tutti gli standard di tutela contemplati dall’Azione. In primo luogo, il precetto che ha fatto ingresso nel nostro ordinamento non abbraccia l’ampio novero di soggetti attivi della previsione comunitaria (qualsiasi dipendente o altra persona nel momento in cui svolga funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per o per conto di una persona fisica o giuridica operante nel settore privato): sia perché riguarda solo alcuni autori qualificati (amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori, nonché responsabili della revisione), sia perché richiede che tutti gravitino nell’orbita delle società commerciali, così negando rilevanza a quei comportamenti infedeli – pur considerati dall’Azione comune – posti in essere ai danni di persone fisiche operanti nel settore privato. Quanto poi all’oggettività tutelata dall’art.2635, non emerge il benché minimo intendimento di proteggere il bene costituito dalla libera e leale concorrenza, né sussiste alcuna traccia esplicita che si riporti alla materia dell’aggiudicazione o dell’esecuzione di un contratto. Su tale versante la norma italiana si colloca in controtendenza rispetto all’Azione comunitaria. Lo strumento europeo si pone infatti l’obiettivo minimo di sanzionare quelle condotte che comportino una non corretta aggiudicazione o esecuzione di un contratto. L’art. 2635 amplia invece il suo orizzonte, includendo nella propria sfera di prensione il compimento o l’omissione di qualsiasi atto in violazione degli obblighi inerenti a determinati uffici societari, salvo poi sviluppare in altra direzione la linea di tutela accordata dal precetto: nel mentre l’Azione è tesa a prevenire la produzione, anche solo potenziale, di danni economici a terzi, la nostra incriminazione è vòlta invece ad evitare danni alla società cui appartiene o con cui è in relazione il soggetto attivo. Non è dato scorgere, vuoi nella legge delega n.366/2001, vuoi nella relazione al successivo e testé menzionato decreto legislativo, alcun accenno alla volontà di attuare all’Azione comune. Per contro, allorché si era pensato di dar seguito ad impegni internazionali, il richiamo ad essi era esplicito: e bene ne dà conto proprio il progetto Mirone, che in modo espresso faceva appunto riferimento alle fonti comunitarie e alla volontà di darvi attuazione. In considerazione di ciò non pare fuori luogo affermare che le istanze formulate in sede europea permangono, a tutt’oggi, inevase dal legislatore italiano. Altro profilo esaminato nella pubblicazione è il seguente: l’intervento riformatore calibrato dal progetto Mirone, oltre ad avere una ben precisa ragion d’essere, conferiva una significativa sfera d’autonomia all’infedeltà qualificata. Se, da un lato, l’art.2634 era concepito per contrastare quei comportamenti (atti di disposizione dei beni sociali) posti in essere in presenza di conflitto d’interessi tra gestore e società con il corredo di coefficiente psicologico (dolo specifico, al quale il d.lgs. n.61/2002 ha poi aggiunto anche quello intenzionale) e offesa al patrimonio sociale prescritti dalla norma, dall’altro, l’art.2635 era rivolto a sanzionare il pactum sceleris (dazione o promessa di utilità contro compimento od omissione di atti in violazione degli obblighi d’ufficio) tra gestore e terzo. Il tutto sfalsando i piani d’azione delle due fattispecie: la prima operativa con l’evento dannoso al patrimonio, la seconda attestata alla soglia del pericolo di lesione per il medesimo bene giuridico protetto. Ulteriore riflessione viene svolta con riguardo ai modelli di intervento fruibili per contrastare penalmente nel settore privato l’infedeltà qualificata dal pactum sceleris, in considerazione del bene giuridico da proteggere e della soglia di tutela da apprestare; ciò, per poi verificare a quale modello si è ispirato il legislatore della riforma societaria e in che misura sia possibile rapportare l’art.2635 c.c. all’art.319 c.p. in punto di corruzione propria di pubblico ufficiale.
2005
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