Il saggio ripropone il valore cruciale del divieto di analogia in malam partem nel diritto penale in una rinnovata disamina del suo fondamento politico-costituzionale a favore del cittadino contro la possibile estensione dell’imputazione per via giurisprudenziale. La crisi della legalità nel campo penale, indotta dalla pluralità delle fonti internazionali e dalla centralità dell’interpretazione giudiziale, tende a mettere in crisi anche il divieto di analogia in malam partem. Concorrono alla crisi della stretta legalità anche le acquisizioni in campo giuridico degli studi ermeneutici che la filosofia contemporanea ha svolto, a partire dall’opera di Hans Georg Gedamer Wahrheit und Methode del 1960. Il saggio, prendendo in esame le applicazioni che Arthur Kaufmann, Joachim Hruschka e Winfried Hassemer hanno fatto dell’ermeneutica in campo penale, mette in evidenza l’esigenza, spesso trascurata, che il precetto penale scaturisca dall’esperienza criminologica concreta. Se, dunque, non si può ragionevolmente asserire, anche in base alle acquisizioni della contemporanea ermeneutica, che il diritto possa essere esaurito dalla legge, il rapporto di collaborazione tra legislazione ed esperienza criminologica consente di riempire di contenuti concreti il precetto normativo, togliendo al giudice l’esigenza di completamenti punitivi in malam partem in sede giudiziaria. Il modello normativo determinato ed efficace scaturisce dal fatto e dall’esperienza. La devianza penale non nasce nominalisticamente, more geometrico determinata, dal dettato autoritario del legislatore, bensì dalla corretta descrizione linguisitica di ciò che devìa veramente da qualcosa e che viene percepito socialmente come grandemente deviante dalla pace giuridica. Alla luce del carattere fondativo dell’esperienza, al fine dell’elaborazione legislativa di fattispecie penali determinate, affiora l’importanza cruciale della stretta legalità, come esigenza di precisazione, di delimitazione, di determinazione del modello criminologico contro ogni possibile abuso in sede di applicazione giudiziale delle norme positive. L’analogia, come procedimento di conoscenza del diritto, riflette sul piano del conoscere la realtà dell’esistenza, ove le cose e le situazioni di vita si presentano nel mondo in parte simili e in parte dissimili le une dalle altre. L’analogia ha, pertanto, una intrinseca espansività. Ma il compito della legge penale sta proprio nel contenere tale espansività a garanzia dell’imputato. Se l’analogia costituisce il modo ordinario di interpretare il diritto e se il suo divieto riposa esclusivamente sulla ratio politica di proteggere il cittadino, è evidente che non v’è alcun motivo per estenderne la portata alle norme che escludono o attenuano la responsabilità o che, comunque, importano un trattamento più favorevole per l’agente. Inoltre, se la ratio del divieto è di garanzia e se l’analogia tende a entrare nel processo decisionale del giudice sotto forma di interpretazione estensiva, allora, meglio che di divieto di analogia dovrebbe parlarsi più propriamente della sussistenza del vincolo per il giudice di attenersi, tra le varie possibili, all’interpretazione della legge più favorevole per l’accusato. In questo modo l’obbligo dell’interpretazione restrittiva della legge penale costituirebbe il giusto e coerente completamento, sul piano dell’interpretazione del diritto, del principio che, sul piano dell’interpretazione del fatto, suona nei termini antichi per cui il giudice deve risolversi, nei casi dubbi, a favore del reo ovvero, più modernamente, deve poter affermare la responsabilità dell’imputato soltanto quando essa sia provata «oltre ogni ragionevole dubbio».

Precomprensione ermeneutica del tipo legale e divieto di analogia.

RONCO, MAURO
2006

Abstract

Il saggio ripropone il valore cruciale del divieto di analogia in malam partem nel diritto penale in una rinnovata disamina del suo fondamento politico-costituzionale a favore del cittadino contro la possibile estensione dell’imputazione per via giurisprudenziale. La crisi della legalità nel campo penale, indotta dalla pluralità delle fonti internazionali e dalla centralità dell’interpretazione giudiziale, tende a mettere in crisi anche il divieto di analogia in malam partem. Concorrono alla crisi della stretta legalità anche le acquisizioni in campo giuridico degli studi ermeneutici che la filosofia contemporanea ha svolto, a partire dall’opera di Hans Georg Gedamer Wahrheit und Methode del 1960. Il saggio, prendendo in esame le applicazioni che Arthur Kaufmann, Joachim Hruschka e Winfried Hassemer hanno fatto dell’ermeneutica in campo penale, mette in evidenza l’esigenza, spesso trascurata, che il precetto penale scaturisca dall’esperienza criminologica concreta. Se, dunque, non si può ragionevolmente asserire, anche in base alle acquisizioni della contemporanea ermeneutica, che il diritto possa essere esaurito dalla legge, il rapporto di collaborazione tra legislazione ed esperienza criminologica consente di riempire di contenuti concreti il precetto normativo, togliendo al giudice l’esigenza di completamenti punitivi in malam partem in sede giudiziaria. Il modello normativo determinato ed efficace scaturisce dal fatto e dall’esperienza. La devianza penale non nasce nominalisticamente, more geometrico determinata, dal dettato autoritario del legislatore, bensì dalla corretta descrizione linguisitica di ciò che devìa veramente da qualcosa e che viene percepito socialmente come grandemente deviante dalla pace giuridica. Alla luce del carattere fondativo dell’esperienza, al fine dell’elaborazione legislativa di fattispecie penali determinate, affiora l’importanza cruciale della stretta legalità, come esigenza di precisazione, di delimitazione, di determinazione del modello criminologico contro ogni possibile abuso in sede di applicazione giudiziale delle norme positive. L’analogia, come procedimento di conoscenza del diritto, riflette sul piano del conoscere la realtà dell’esistenza, ove le cose e le situazioni di vita si presentano nel mondo in parte simili e in parte dissimili le une dalle altre. L’analogia ha, pertanto, una intrinseca espansività. Ma il compito della legge penale sta proprio nel contenere tale espansività a garanzia dell’imputato. Se l’analogia costituisce il modo ordinario di interpretare il diritto e se il suo divieto riposa esclusivamente sulla ratio politica di proteggere il cittadino, è evidente che non v’è alcun motivo per estenderne la portata alle norme che escludono o attenuano la responsabilità o che, comunque, importano un trattamento più favorevole per l’agente. Inoltre, se la ratio del divieto è di garanzia e se l’analogia tende a entrare nel processo decisionale del giudice sotto forma di interpretazione estensiva, allora, meglio che di divieto di analogia dovrebbe parlarsi più propriamente della sussistenza del vincolo per il giudice di attenersi, tra le varie possibili, all’interpretazione della legge più favorevole per l’accusato. In questo modo l’obbligo dell’interpretazione restrittiva della legge penale costituirebbe il giusto e coerente completamento, sul piano dell’interpretazione del diritto, del principio che, sul piano dell’interpretazione del fatto, suona nei termini antichi per cui il giudice deve risolversi, nei casi dubbi, a favore del reo ovvero, più modernamente, deve poter affermare la responsabilità dell’imputato soltanto quando essa sia provata «oltre ogni ragionevole dubbio».
2006
Studi in onore di Giorgio Marinucci
8814121486
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