Ciò che caratterizza le pene accessorie, in contrapposizione alle pene principali, è la loro attitudine a incidere sulla capacità giuridica del destinatario di esercitare diritti o poteri, o espletare funzioni. Nella conformazione originariamente tratteggiata dal codice Rocco esse assumevano il ruolo di misure di prevenzione generale in cui si manifestava in modo indissolubile la relazione tra reato e pena: deponevano in tal senso, tra l’altro, l’automatismo applicativo, scevro da discrezionalità giudiziale, nonché la mancata estensione alle pene accessorie di istituti mossi da finalità special-preventive, quali la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (rispettivamente art. 166 e art. 175, nelle stesure originarie). Se, dunque, nella sostanza si atteggiavano come vere pene, in punto di disciplina si accostavano maggiormente agli effetti penali della condanna, attesa la loro stretta dipendenza dalla pena principale irrogata. Nella pubblicazione ci si interroga sulla funzione da esse svolta nell’ambito del sistema penale, taluno ha escluso che possa venire identificata con quella rieducativa, sancita dalla Carta costituzionale all’art. 27, 3° co., che andrebbe riferita esclusivamente alle pene principali o addirittura solo alle pene detentive, non coinvolgendo invece quelle accessorie. La prospettazione non è però accoglibile, in considerazione del fatto che le pene accessorie non sono, sul piano ontologico, differenti da quelle principali: dato il loro impatto sulla libertà personale, ne consegue che pure in tal caso è indispensabile il presidio delle garanzie costituzionali. Non scevre da finalità retributive, le pene accessorie per esercitare la funzione rieducativa debbono tuttavia essere conformate in modo tale da non perdere di vista l’esigenza di reinserimento sociale del reo, e questo tramite una loro adeguata correlazione a singole classi di reati, che tenga altresì conto, nel momento dell’irrogazione, dell’effettivo disvalore del fatto che ha determinato la risposta punitiva dell’ordinamento. La Consulta si è pronunciata più volte in riferimento alla costituzionalità di taluni profili delle pene accessorie, giungendo a dichiarare l’illegittimità della perdita da parte del condannato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni a carico dello Stato o di altro ente pubblico prevista dall'art. 28, 2° co., n. 5, segnatamente nella parte in cui i diritti ivi contemplati discendessero da un rapporto di lavoro, confliggendo così con l'art. 36 Cost. In altre occasioni, invece, la Corte ha respinto le eccezioni di incostituzionalità, come nel caso di quella sollevata nei riguardi dell'art. 26, lett. d), l. 14 luglio 1965, n. 936, che prescrive la pena accessoria della sospensione della validità del permesso di pesca e dell'interdizione di esercitarla, anche alle altrui dipendenze, in esito alle sentenze di condanna per i reati di cui alla disciplina della pesca marittima, nonché nel caso di quella attinente all’art. 29, che commina l'interdizione dai pubblici uffici, visto che non emergono disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, e non risulta nemmeno disatteso il principio di adeguatezza della pena. L’originaria regolamentazione delle sanzioni in parola ha vissuto una significativa revisione dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, allorché, in esito alla riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), l’art. 122, l. 24 novembre 1981, n. 689 ha provveduto a sostituire nell’art. 34 il concetto di patria potestà con quello di potestà genitoriale, rimodulando inoltre quello di perdita della potestà in termini di decadenza dalla stessa. La legge del 1981, con l’art. 119, è altresì intervenuta eliminando alcune pene di natura infamante, quali la perdita della capacità di testare e la nullità del testamento fatto prima della condanna, allora contemplate dall’art. 32; con l’art. 120 ha quindi ampliato il catalogo delle pene accessorie, inserendone talune di nuovo conio, permeate in modo preponderante da connotazioni a valenza special-preventiva e consistenti in particolare nell’interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche e imprese (art. 32 bis) e nell’incapacità di contrattare con la P.A. (artt. 32 ter e 32 quater), sul fronte dei delitti, nonché nella sospensione dagli uffici direttivi di persone giuridiche e imprese, sul versante delle contravvenzioni. Conseguemente, l’art. 148 ha cancellato l’incapacitazione all’esercizio degli uffici direttivi d’impresa, già prevista dal previgente art. 2641 c.c. e fonte di perplessità d’ordine costituzionale per la misura fissa della sanzione (10 anni), e ha evidenziato l’ampia sfera d’applicazione del citato art. 32 bis. Ad incidere sulla fisionomia delle pene accessorie ha poi concorso la l. 7 febbraio 1990, n. 19 che, riscrivendo – con l’art. 4 – il 1° comma dell’art. 166, ha esteso alle stesse il raggio d’azione della sospensione condizionale, e, abrogando – con l’art. 7 – il 4° comma dell’art. 175, ha reso operativo il beneficio della non menzione anche quando alla condanna conseguano pene accessorie. Si aggiungano infine due interventi di cui s’è fatto latore il nuovo codice di procedura penale: il primo, contenuto nell’art. 217 disp. att. c.p.p., ha fatto venir meno la criticata applicazione provvisoria delle sanzioni in oggetto, già prevista dall’art. 140 e quindi abrogata; il secondo, contemplato dall’art. 445 c.p.p., nell’ottica premiale che qualifica l’istituto del patteggiamento ha escluso l’applicabilità di pene accessorie nell’ipotesi di ricorso al rito alternativo.

Le pene accessorie

ZAMBUSI, ANGELO
2006

Abstract

Ciò che caratterizza le pene accessorie, in contrapposizione alle pene principali, è la loro attitudine a incidere sulla capacità giuridica del destinatario di esercitare diritti o poteri, o espletare funzioni. Nella conformazione originariamente tratteggiata dal codice Rocco esse assumevano il ruolo di misure di prevenzione generale in cui si manifestava in modo indissolubile la relazione tra reato e pena: deponevano in tal senso, tra l’altro, l’automatismo applicativo, scevro da discrezionalità giudiziale, nonché la mancata estensione alle pene accessorie di istituti mossi da finalità special-preventive, quali la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (rispettivamente art. 166 e art. 175, nelle stesure originarie). Se, dunque, nella sostanza si atteggiavano come vere pene, in punto di disciplina si accostavano maggiormente agli effetti penali della condanna, attesa la loro stretta dipendenza dalla pena principale irrogata. Nella pubblicazione ci si interroga sulla funzione da esse svolta nell’ambito del sistema penale, taluno ha escluso che possa venire identificata con quella rieducativa, sancita dalla Carta costituzionale all’art. 27, 3° co., che andrebbe riferita esclusivamente alle pene principali o addirittura solo alle pene detentive, non coinvolgendo invece quelle accessorie. La prospettazione non è però accoglibile, in considerazione del fatto che le pene accessorie non sono, sul piano ontologico, differenti da quelle principali: dato il loro impatto sulla libertà personale, ne consegue che pure in tal caso è indispensabile il presidio delle garanzie costituzionali. Non scevre da finalità retributive, le pene accessorie per esercitare la funzione rieducativa debbono tuttavia essere conformate in modo tale da non perdere di vista l’esigenza di reinserimento sociale del reo, e questo tramite una loro adeguata correlazione a singole classi di reati, che tenga altresì conto, nel momento dell’irrogazione, dell’effettivo disvalore del fatto che ha determinato la risposta punitiva dell’ordinamento. La Consulta si è pronunciata più volte in riferimento alla costituzionalità di taluni profili delle pene accessorie, giungendo a dichiarare l’illegittimità della perdita da parte del condannato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni a carico dello Stato o di altro ente pubblico prevista dall'art. 28, 2° co., n. 5, segnatamente nella parte in cui i diritti ivi contemplati discendessero da un rapporto di lavoro, confliggendo così con l'art. 36 Cost. In altre occasioni, invece, la Corte ha respinto le eccezioni di incostituzionalità, come nel caso di quella sollevata nei riguardi dell'art. 26, lett. d), l. 14 luglio 1965, n. 936, che prescrive la pena accessoria della sospensione della validità del permesso di pesca e dell'interdizione di esercitarla, anche alle altrui dipendenze, in esito alle sentenze di condanna per i reati di cui alla disciplina della pesca marittima, nonché nel caso di quella attinente all’art. 29, che commina l'interdizione dai pubblici uffici, visto che non emergono disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, e non risulta nemmeno disatteso il principio di adeguatezza della pena. L’originaria regolamentazione delle sanzioni in parola ha vissuto una significativa revisione dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, allorché, in esito alla riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), l’art. 122, l. 24 novembre 1981, n. 689 ha provveduto a sostituire nell’art. 34 il concetto di patria potestà con quello di potestà genitoriale, rimodulando inoltre quello di perdita della potestà in termini di decadenza dalla stessa. La legge del 1981, con l’art. 119, è altresì intervenuta eliminando alcune pene di natura infamante, quali la perdita della capacità di testare e la nullità del testamento fatto prima della condanna, allora contemplate dall’art. 32; con l’art. 120 ha quindi ampliato il catalogo delle pene accessorie, inserendone talune di nuovo conio, permeate in modo preponderante da connotazioni a valenza special-preventiva e consistenti in particolare nell’interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche e imprese (art. 32 bis) e nell’incapacità di contrattare con la P.A. (artt. 32 ter e 32 quater), sul fronte dei delitti, nonché nella sospensione dagli uffici direttivi di persone giuridiche e imprese, sul versante delle contravvenzioni. Conseguemente, l’art. 148 ha cancellato l’incapacitazione all’esercizio degli uffici direttivi d’impresa, già prevista dal previgente art. 2641 c.c. e fonte di perplessità d’ordine costituzionale per la misura fissa della sanzione (10 anni), e ha evidenziato l’ampia sfera d’applicazione del citato art. 32 bis. Ad incidere sulla fisionomia delle pene accessorie ha poi concorso la l. 7 febbraio 1990, n. 19 che, riscrivendo – con l’art. 4 – il 1° comma dell’art. 166, ha esteso alle stesse il raggio d’azione della sospensione condizionale, e, abrogando – con l’art. 7 – il 4° comma dell’art. 175, ha reso operativo il beneficio della non menzione anche quando alla condanna conseguano pene accessorie. Si aggiungano infine due interventi di cui s’è fatto latore il nuovo codice di procedura penale: il primo, contenuto nell’art. 217 disp. att. c.p.p., ha fatto venir meno la criticata applicazione provvisoria delle sanzioni in oggetto, già prevista dall’art. 140 e quindi abrogata; il secondo, contemplato dall’art. 445 c.p.p., nell’ottica premiale che qualifica l’istituto del patteggiamento ha escluso l’applicabilità di pene accessorie nell’ipotesi di ricorso al rito alternativo.
2006
Commentario sistematico al Codice Penale
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