Nell’interpretazione di D. 22.1.4 la dottrina è spesso partita dal presupposto, in realtà indimostrato, che non si possa novare un’obbligazione tutelata con azione di buona fede, se non utilizzando una formula che comprenda tutti i possibili obblighi da essa scaturenti, per argomentarne poi senza possibilità di dubbio che il testo non possa essere autentico, che Papiniano non poteva parlarvi di novazione; non è stato, però, mai spiegato in modo chiaro quale sarebbe il motivo che avrebbe indotto i compilatori a inserire tale riferimento. Non ha fatto sorgere perplessità neppure il rinvenire all’interno della compilazione giustinianea altre testimonianze dalle quali emerge un regime diverso da quello tradizionalmente immaginato per la novazione, un regime che contempla anche la possibilità di una novazione che non rispetti il principio dell’idem debitum. Appare più corretto e produttivo un atteggiamento finalizzato a leggere il passo di Papiniano con la mente sgombra dai pregiudizi in materia di novazione e, una volta accertata l’assenza di altri motivi per sospettare della sua autenticità, ricavarne tutti i possibili dati sull’argomento della novazione: se ne è desunto come probabile il fatto che alla fine dell’epoca classica la novazione potesse essere utilizzata anche al di fuori dei presunti limiti rigorosi conosciuti dai giuristi più antichi; non sembra neppure da escludere la classicità non solo dell’animus novandi e della novazione non titolata, ma anche di alcune ipotesi di novazione con mutamento dell’oggetto e di novazione parziale, per l’interpretazione delle quali era appunto indispensabile la ricerca dell’effettiva intenzione delle parti.

Per una revisione dei dogmi in materia di novazione oggettiva: analisi di Pap. 27 quaest. D. 22.1.4.

LAMBRINI, PAOLA
2007

Abstract

Nell’interpretazione di D. 22.1.4 la dottrina è spesso partita dal presupposto, in realtà indimostrato, che non si possa novare un’obbligazione tutelata con azione di buona fede, se non utilizzando una formula che comprenda tutti i possibili obblighi da essa scaturenti, per argomentarne poi senza possibilità di dubbio che il testo non possa essere autentico, che Papiniano non poteva parlarvi di novazione; non è stato, però, mai spiegato in modo chiaro quale sarebbe il motivo che avrebbe indotto i compilatori a inserire tale riferimento. Non ha fatto sorgere perplessità neppure il rinvenire all’interno della compilazione giustinianea altre testimonianze dalle quali emerge un regime diverso da quello tradizionalmente immaginato per la novazione, un regime che contempla anche la possibilità di una novazione che non rispetti il principio dell’idem debitum. Appare più corretto e produttivo un atteggiamento finalizzato a leggere il passo di Papiniano con la mente sgombra dai pregiudizi in materia di novazione e, una volta accertata l’assenza di altri motivi per sospettare della sua autenticità, ricavarne tutti i possibili dati sull’argomento della novazione: se ne è desunto come probabile il fatto che alla fine dell’epoca classica la novazione potesse essere utilizzata anche al di fuori dei presunti limiti rigorosi conosciuti dai giuristi più antichi; non sembra neppure da escludere la classicità non solo dell’animus novandi e della novazione non titolata, ma anche di alcune ipotesi di novazione con mutamento dell’oggetto e di novazione parziale, per l’interpretazione delle quali era appunto indispensabile la ricerca dell’effettiva intenzione delle parti.
2007
Filia. Scritti per G. Franciosi
9788876070501
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