L’interrogativo di fondo dal quale muove la disamina condotta dall’Autore è il seguente: un magistrato (ordinario) può manifestare liberamente il proprio pensiero (sulla stampa, in televisione, durante un pubblico dibattito, ecc.) al pari di qualunque altro cittadino, oppure - per il peculiare ruolo professionale che riveste - deve sottostare a particolari cautele e limiti anche al fine di non mettere a repentaglio, neanche sotto il profilo dell'apparenza, la fiducia del consorzio civile nella sua indipendenza e nella sua imparzialità allorquando è concretamente chiamato ad amministrare giustizia? L’articolata risposta a tale quesito viene fornita analizzando, anzitutto, sia i principi ed i precetti costituzionali (così come interpretati dalla dottrina e dal Giudice delle leggi), sia la normativa recata dalla C.E.D.U. (così come interpretata dalla relativa giurisprudenza), sia le più recenti riforme legislative concernenti la responsabilità disciplinare degli esponenti dell’ordine giudiziario; in secondo luogo, ampio spazio viene riservato all’analisi di una molteplicità di fattispecie concrete, più o meno note, di cui si è dovuta occupare la Sezione disciplinare del C.S.M. Tra le altre cose, l’Autore non manca di soffermarsi sulla crescita qualitativa e quantitativa di esternazioni che, purtroppo, si è appalesata in Italia a partire dai primi anni ’90 del Secolo scorso in poi, in concomitanza cioè con l’avvio della cosiddetta "stagione di Tangentopoli": e giunge alla conclusione che anche le (non equilibrate) dichiarazioni di taluni esponenti dell’ordine giudiziario hanno contribuito in passato nel nostro Paese a incrinare i rapporti tra politica e magistratura, con riflessi pure sull’equilibrato assetto dei poteri dello Stato (e con il rischio di turbare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, come a suo tempo aveva sottolineato l’allora Ministro Guardasigilli, Giovanni Maria Flick, in una apposita "Nota di indirizzo disciplinare" varata, in argomento, nel 1996 e pubblicata in Appendice al Volume). Oltre a ciò, il lavoro monografico offre molteplici spunti di riflessione su ulteriori problematiche costituzionali e ordinamentali: quali, ad esempio, quelle che investono vuoi il ruolo stesso del C.S.M. (e della Sezione disciplinare), vuoi la legittimità e l’efficacia delle cosiddette "pratiche a tutela" (che vengono approvate dall’organo di governo autonomo per tutelare i magistrati vittime di attacchi denigratori). L’auspicio conclusivo che è manifestato dall’Autore è nel senso che i magistrati tutti provvedano ad esercitare in maniera spontaneamente responsabile l'esercizio della loro libertà (positiva e negativa) di espressione, anche in ottemperanza alle c.d. regole di correttezza costituzionale: tenendo altresì conto, tra l'altro, della condivisibile osservazione che pochi anni orsono è stata autorevolmente formulata da Gustavo Zagrebelsky (peraltro con riferimento ai giudici costituzionali), ad avviso del quale se il silenzio può anche essere vissuto come una costrizione dal giudice, è altrettanto vero però che, a ben vedere, si tratta di “una costrizione che libera, garantendo l’estraneità alla girandola delle parole senza responsabilità e dignità che tutto svilisce e corrompe. Silenzio per indipendenza e autorevolezza”.
LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE DEI MAGISTRATI
DE NARDI, SANDRO
2008
Abstract
L’interrogativo di fondo dal quale muove la disamina condotta dall’Autore è il seguente: un magistrato (ordinario) può manifestare liberamente il proprio pensiero (sulla stampa, in televisione, durante un pubblico dibattito, ecc.) al pari di qualunque altro cittadino, oppure - per il peculiare ruolo professionale che riveste - deve sottostare a particolari cautele e limiti anche al fine di non mettere a repentaglio, neanche sotto il profilo dell'apparenza, la fiducia del consorzio civile nella sua indipendenza e nella sua imparzialità allorquando è concretamente chiamato ad amministrare giustizia? L’articolata risposta a tale quesito viene fornita analizzando, anzitutto, sia i principi ed i precetti costituzionali (così come interpretati dalla dottrina e dal Giudice delle leggi), sia la normativa recata dalla C.E.D.U. (così come interpretata dalla relativa giurisprudenza), sia le più recenti riforme legislative concernenti la responsabilità disciplinare degli esponenti dell’ordine giudiziario; in secondo luogo, ampio spazio viene riservato all’analisi di una molteplicità di fattispecie concrete, più o meno note, di cui si è dovuta occupare la Sezione disciplinare del C.S.M. Tra le altre cose, l’Autore non manca di soffermarsi sulla crescita qualitativa e quantitativa di esternazioni che, purtroppo, si è appalesata in Italia a partire dai primi anni ’90 del Secolo scorso in poi, in concomitanza cioè con l’avvio della cosiddetta "stagione di Tangentopoli": e giunge alla conclusione che anche le (non equilibrate) dichiarazioni di taluni esponenti dell’ordine giudiziario hanno contribuito in passato nel nostro Paese a incrinare i rapporti tra politica e magistratura, con riflessi pure sull’equilibrato assetto dei poteri dello Stato (e con il rischio di turbare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste, come a suo tempo aveva sottolineato l’allora Ministro Guardasigilli, Giovanni Maria Flick, in una apposita "Nota di indirizzo disciplinare" varata, in argomento, nel 1996 e pubblicata in Appendice al Volume). Oltre a ciò, il lavoro monografico offre molteplici spunti di riflessione su ulteriori problematiche costituzionali e ordinamentali: quali, ad esempio, quelle che investono vuoi il ruolo stesso del C.S.M. (e della Sezione disciplinare), vuoi la legittimità e l’efficacia delle cosiddette "pratiche a tutela" (che vengono approvate dall’organo di governo autonomo per tutelare i magistrati vittime di attacchi denigratori). L’auspicio conclusivo che è manifestato dall’Autore è nel senso che i magistrati tutti provvedano ad esercitare in maniera spontaneamente responsabile l'esercizio della loro libertà (positiva e negativa) di espressione, anche in ottemperanza alle c.d. regole di correttezza costituzionale: tenendo altresì conto, tra l'altro, della condivisibile osservazione che pochi anni orsono è stata autorevolmente formulata da Gustavo Zagrebelsky (peraltro con riferimento ai giudici costituzionali), ad avviso del quale se il silenzio può anche essere vissuto come una costrizione dal giudice, è altrettanto vero però che, a ben vedere, si tratta di “una costrizione che libera, garantendo l’estraneità alla girandola delle parole senza responsabilità e dignità che tutto svilisce e corrompe. Silenzio per indipendenza e autorevolezza”.Pubblicazioni consigliate
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