L’opera trova il proprio fulcro strutturale e metodologico nell’individuazione di alcuni profili teorico-problematici, alla ricerca dell’ubi consistam della finalità di terrorismo. In particolare, vengono individuati alcuni approdi classificatori, elaborati da dottrina e giurisprudenza in subiecta materia; in seguitovengono enucleate quattro “conclusioni interlocutorie”, suscettibili di superamento. Infine, la ricerca termina con una quinta conclusione, “alla ricerca del definitivo”, nella quale si disvela il “retroterra” antropologico e, al limite, escatologico della categoria del terrorismo. Nella prima parte del testo è riportata una sequenza normativa ragionata riguardante gli atti normativi in tema di criminalità politico-sovversiva, dagli anni ‘70 ad oggi, ossia dalla l. 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità), alla l. 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. “legge Reale” denominata “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”), sino a giungere alla legislazione antiterrorismo più recente, successiva ai fatti dell’11 settembre 2001. Nella seconda parte del testo, vengono individuati ed analizzati i caratteri fondamentali del terrorismo, i quali emergono dall’analisi normativa e dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale: si tratta del ricorso alla violenza efferata e del fine di carattere politico. Il primo elemento si riferisce al comune uso, da parte dei terroristi, di mezzi cruenti, idonei a creare il panico nella collettività e a provocare grave danno o pericolo per l’incolumità pubblica. Tale rilievo, tuttavia, appare sin da subito affetto da una chiara “insufficienza definitoria”, in quanto è evidente che la violenza non connota esclusivamente il fenomeno terroristico, ma è sostanzialmente comune a numerose dinamiche delittuose, quale, in primis, la criminalità organizzata; quest’ultima, infatti, generalmente, si serve anch’essa di mezzi violenti o intimidatori al fine di stabilire, cristallizzare e mantenere il proprio dominio sul territorio. Ma anche il confronto tra il terrorismo e la c.d. “violenza convenzionale” diviene dubbio, se non imbarazzante, laddove si focalizzi l’attenzione esclusivamente sulla declinazione violenta di tali due fenomeni. Al fine di cogliere l’essenza del terrorismo, dunque, stante l’insufficienza definitoria del concetto di “violenza efferata”, appare necessario abbinare a quest’ultimo il secondo elemento del binomio, ossia il fine eminentemente politico, il quale contraddistingue – recte, sembra contraddistinguere – la finalità terroristica rispetto ad altre finalità criminose estrinsecantisi in episodi di violenza. Proprio sul profilo ‘politico’, dunque, si concentra l’attenzione, onde comprendere, tra le tante accezioni della politikè téchne, quale sia quella più connaturata alla matrice terroristica. In proposito, viene in rilievo la nota riflessione in tema di “politica”, la quale principia dalla considerazione della natura “ambigua” di tale termine: infatti, il termine “politica”, che letteralmente significa “della polis”, ossia “della città”, “porta con sé l’ambiguità caratterizzante ogni genitivo, che si lascia intendere indifferentemente nel senso soggettivo, come in quello oggettivo”[3]. Nel senso oggettivo, la “politica” è tutta rivolta “a valle”, ossia concerne i problemi della convivenza comunitaria, in una prospettiva globale e non partigiana, caratterizzata dalla composizione dialettica dei contrasti sociali; nel senso soggettivo, invece, la “politica” indica, “a monte”, tutto ciò che riguarda il soggetto ‘Stato’, quale entità autoreferenziale ed autosufficiente, la quale ha, sostanzialmente, la natura della “parte” che diviene “tutto” mediante un atto di volontà, di potere e, in definitiva, di forza. Ebbene, è evidente che, trattando del fine ‘politico’ connaturato al terrorismo (o meglio, alla radice iniziale di esso), si fa riferimento ad un’istanza soggettivamente politica, ossia un afflato politico caratterizzato dal trinomio volontà-potere-forza; infatti, non v’è chi non scorga, alla base del fenomeno terroristico, proprio la volontà di sovrapposizione, sopraffazione, dominio di una parte sul tutto. E tale approccio sottende, ancor più a monte, un’adesione al paradigma contrattualistico, quale modello teorico nel quale lo Stato moderno viene fondato sulla c.d. “istituzionalizzazione del conflitto”: se, infatti, si fa risalire la fondazione della comunità politica ad un atto di volontà e di forza, tramite il quale alla forza ed alla violenza della moltitudine si sostituiscono, mediante reductio ad unum, la forza e la violenza dell’Uno (ossia, dello Stato), quale modo migliore per rovesciare lo status quo se non quello di sottoporre lo Stato esistente alla sua stessa violenza fondativa, in una spirale ciclica di terrore? E proprio il riferimento all’istanza “soggettivo-politica” tipica del fenomeno terroristico non può non rinviare al tema schmittiano della “soggettività del nemico”; infatti, proprio la cornice teorica del “conflitto” radicale, tipica del pensiero di Carl Schmitt, pare avere numerose affinità concettuali con la parallela teorica del “terrore permanente”. In tale ottica, “l’aggregazione politica si presenta come aggregazione di conflittualità sin dalla sua definizione, quella definizione che considera la politica secondo la prospettiva unilaterale del conflitto, quale sua unica fonte” (pag. 58). In via di prima approssimazione, come in Carl Schmitt, così nell’ambito del “sistema terroristico”, il conflitto diviene unico metro, uno criterio di giudizio che consente di distinguere ciò che è politico da ciò che politico non è; al limite, l’eliminazione fisica del nemico, quale condicio sine qua non dell’affermazione del potere, diviene strumento ammissibile, se non addirittura necessitato della dinamica politica. Alla luce di ciò, dunque, la prima conclusione interlocutoria è la seguente: innanzi alla “insufficienza classificatoria” cui va incontro una ricostruzione del fenomeno terroristico in chiave di mera violenza efferata, il secondo elemento costitutivo, rappresentato dalla finalità politica, assume un significato strettamente soggettivo. Al fine di verificare la fondatezza di tale prima conclusione interlocutoria, viene ripresa la distinzione tra il concetto schmittiano di “nemico pubblico” o “esterno” (hostis, in greco polémios) ed il concetto classico di inimicus (in greco ékthros), con particolare attenzione alla parallela contrapposizione tra la guerra “esterna” e la sedizione “interna” alla comunità politica: nella guerra, infatti, la polis combatte contro l’hostis esterno, il quale, in quanto extraneus, non viene fatto oggetto di riconoscimento alcuno da parte del civis; viceversa, nella sedizione, è come se la polis – cui appartiene anche l’inimicus – combattesse con sé stessa, in un fase in cui la fisiologica amicizia si tramuta, temporaneamente, in mera discordia, senza sfociare mai in guerra totale. Ora, in chiave schmittiana, la coppia amico/nemico, che costituisce il nucleo teorico di ogni politica, si lega al significato “esterno” di nemico, ossia fa riferimento alla guerra tra il cittadino e l’hostis estraneo alla comunità: tant’è che, nel pensiero di Schmitt, il nemico è concepito come un “corpo estraneo” ed esterno rispetto al perimetro della polis. Tuttavia, tale paradigma teorico non pare affatto applicabile al fenomeno terroristico, il quale – al di là delle sue ultime declinazioni internazionalistiche, la cui riconduzione al terrorismo “tradizionale” è tutta da dimostrare – assume ontologicamente una portata tradizionalmente “interna” al sistema politico: infatti, il terrorista nasce come cellula “tumorale” che scava, dall’interno, il corpo politico, al fine di destabilizzarlo e, infine, rovesciarlo; inoltre, alle dinamiche terroristiche appare del tutto estraneo il c.d. “diritto di guerra”, il quale regola e disciplina la dimensione “internazionalistico-bellica” del conflitto. Peraltro, a ben vedere, la distanza teorica tra fenomeno terroristico e teoria schmittiana del nemico si rende vieppiù insuperabile, se solo si pone mente agli esiti estremi raggiunti dal giurista di Plettenberg: infatti, il concetto schmittiano di hostis, o nemico esterno, da combattere in ogni caso e a tutti i costi quale non-io da annientare, è tale solo in virtù di una forma – se pur affatto peculiare – di riconoscimento; o meglio, amico e nemico sono tali, solo ove si instauri reciprocamente una relazione, in base alla quale il nemico viene qualificato come tale da parte del civis. E, al limite, se con il nemico si giunge ad un “trattato di pace”, tale accordo postula, ancor di più, un precedente atto di reciproco riconoscimento tra i due soggetti, in virtù del quale si perviene all’hostis iustus, ossia del nemico che, in quanto riconosciuto, diviene “qualcuno”, e non più una scheggia impazzita o un mero delinquente da neutralizzare. Al limite, dunque, il nemico schmittiano acquista il “diritto” di essere tale, è “legittimato” ad essere tale in ragione di un “diritto di guerra”, a differenza delle categorie residuali dei ribelli, dei criminali e dei pirati, hostes irriducibili e non riconducibili nell’alveo del ‘giuridico’. Ecco, allora, che l’incompatibilità tra teoria schmittiana del nemico e teoria soggettiva del “terrorista” diviene insanabile: da un lato l’hostis, il quale, al limite, diviene iustus; dall’altro lato, il terrorista che, al pari dei summenzionati soggetti (ribelli, criminali e pirati), non è in nessun caso suscettibile di essere “riconosciuto” da parte della comunità politica. In conclusione, l’incompatibilità tra la coppia categoriale “amico-nemico” e le radici teoriche del fenomeno terroristico tradisce proprio l’insufficienza concettuale di cui è affetta una ricostruzione politico-soggettivistica del terrorismo, che si fondi esclusivamente sul binomio soggettivo schmittiano. Ma allora diviene claudicante anche una prima conclusione interlocutoria, che individui quale ubi consistam del terrorismo – oltre alla violenza efferata – la finalità politica soggettivamente intesa, in ragione del fatto che, ove l’accezione soggettiva del genitivo “politica” venga fatta coincidere con l’asse portante del terrorismo, si finisce per attribuire alla finalità di terrorismo una valenza affatto contingente, connessa al punto di vista del soggetto vincente nel conflitto; in altri termini, si giunge all’aporia secondo la quale la “parte forte”, risultata vincente nel conflitto sociale, acquista di fatto il potere di qualificare il proprio agire come politico e l’agire del “perdente” come terroristico: evidente la perdita di qualsivoglia spessore assiologico connessa ad una siffatta impostazione. A tale punto della riflessione s’innesta una duplice indagine teorica: da un lato, una riflessione relativa alla nozione penalistica di ‘delitto politico’; dall’altro, un’attenta analisi storico-linguistica, concernente il lemma ‘terrorismo’. Alla luce della categoria penalistica del delitto politico, ci si chiede se il fenomeno criminoso di matrice terroristica possa essere ricondotto, sia in chiave rigoristica sia in chiave garantistica, a tale categoria teorica, con le conseguenze applicative che ne possano derivare. De iure condito, al di là delle numerose argomentazioni teoriche in tal senso, un dato normativo trancia la questione alla radice: la Convenzione europea di Strasburgo del 1977 per la repressione del terrorismo, nonché la Convenzione internazionale di New York del 1997, vietano espressamente la possibilità di qualificare come politici, agli effetti dell’estradizione, i delitti terroristici. È evidente che tale espresso divieto denota una sostanziale inadeguatezza della categoria del delitto politico a comprendere la legislazione antiterrorismo; e tale è, dunque, l’incontestabile approdo del diritto vivente, il quale assume vieppiù profili di interesse teorico, laddove venga progressivamente accostato alla diametrale tendenza, da parte delle frange terroristiche maggioritarie, all’auto-qualificazione in termini di “politicità”. Sul versante d’approfondimento storico-linguistico, il termine “terrorismo” si afferma in Francia alla fine del 18° secolo e viene inizialmente riferito alla condotta dei Giacobini e, successivamente, al régime de la terreur; sul punto, è significativo notare come, dal punto di vista etimologico, il lemma terrorisme nasca, si diffonda e si sviluppi in modo autonomo rispetto all’ascendenza linguistica latina: infatti, da un lato il classico terror (paura, terrore), ha subìto la naturale ramificazione linguistica nei differenti idiomi europei (Furcht e Schrecken in area germanica, fear e scare in area anglosassone); dall’altro, invece, il termine “terrorismo” ha guadagnato ben presto un autonomo sviluppo semantico, rimanendo quasi invariato nei differenti paesi europei (terrorism in Francia, terrorismus in Germania). Ciò sta ad indicare, probabilmente, che l’area semantica del “terrorismo” non risente – quantomeno, in modo immediato e diretto – dell’influenza della differente area semantica costituita dalla triade “terrore-paura-panico”. Allora, il riferimento del “terrorismo” è, storicamente, al “regime del terrore” instaurato nella lunga stagione francese, dall’estate del 1789, al maggio del 1793, al luglio del 1794, stagione che affonda le proprie radici nell’esperienza epocale della Rivoluzione Francese; e dunque, il terrorismo, più che al terrore, si ricollega strutturalmente alla cornice teorica della rivoluzione. Il termine revolutio, ignoto al latino classico, compare nel De Civitate Dei di Sant’Agostino, per designare originariamente il moto circolare ed il ritorno ciclico dei tempi; in ambito astronomico, il termine rinvia al moto necessario, irresistibile e ciclico degli astri; in ambito politico, invece, esso assume il significato di un “ritorno ciclico di forme politiche ricorrenti nella storia”. Alla fine del ‘700, il termine ‘rivoluzione’ si unisce, quasi a creare un’antonomasia, all’esperienza politica francese e giunge a rappresentare un improvviso e radicale capovolgimento dello status quo e delle strutture istituzionali in essere; tale dinamismo ciclico è caratterizzato sin da subito da una prospettiva autoreferenziale e volontaristica, tipica di un potere arbitrario che intende imporsi e farsi valere con il solo uso della forza; inoltre, l’applicazione del termine “rivoluzione”, implicitamente connesso alla natura necessaria ed irresistibile del moto astrale, all’ambito politico, conduce a qualificare il fenomeno politico-rivoluzionario in termini di necessità, invincibilità ed irresistibilità. In tale chiave, la terreur assume un ruolo eminentemente strumentale, assurgendo a mezzo principe per l’affermazione del “nuovo potere”: il “terrore” – e, dunque, il terrorismo – si lega strettamente all’idea secondo la quale il regime istituzionale ha, come strumento principe di auto-affermazione, il ricorso alla repressione efferata, per il tramite di un governo di matrice emergenziale. Paradigmatico di tale impostazione è l’ordine impartito da Robespierre alla Convenzione, in data 8 maggio 1793: “tutte le persone sospette siano considerate come ostaggi e siano messe in stato di arresto”; in tale ottica, al limite, in chiave “terroristica”, la morte diviene lo strumento principale per la neutralizzazione dei conflitti politici. Il patibolo, come osserva Albert Camus, diviene strumento che “assicura l’unità, l’armonia della città, depura la repubblica, elimina le scorie che vengono a contraddire la volontà generale e la ragione universale”; inquietante il riferimento alle “scorie”, sinistramente vicino all’idea futuristica della guerra come strumento di “igiene” del mondo. In tale prospettiva, “il terrore mortifero quale essenza stessa della Rivoluzione, quale tratto caratteristico dell’attività del rivoluzionario e della sua mentalità, nasce per iniziativa dello Stato, nell’interesse di esso, incarnando l’accezione più forte del soggettivismo politico, in nome del quale la politica, con la distribuzione generalizzata della violenza più furiosa, si rafforza, mostra la sua connotazione bellica e, previamente, la sua intima radice conflittuale”: è evidente che una tale teorica del terrore costituisce, in ultima analisi, l’estremo e maturo compimento della radice ideologica rappresentata nel Contratto sociale di Rousseau, ossia l’idea secondo la quale il destino politico dell’individuo consiste nell’alienazione integrale in favore della comunità, la quale perviene ad un controllo capillare del corpo sociale mediante l’esercizio unilaterale –democraticamente condiviso – del proprio potere. A questo punto, s’innesta l’analisi propaggini storiche dipartitesi dalla Rivoluzione Francese, fino a giungere alla rivoluzione del 22 febbraio 1848, con la proclamazione della Seconda Repubblica, nonché all’esperienza della Comune di Parigi del 1871, con la successiva ricostituzione dell’unità territoriale della Terza Repubblica, tutto all’insegna della repressione violenta e del terrore più spietato. In particolare, l’esperienza comunarda appare suscitare un notevole interesse in capo allo studioso della rivoluzione, in quanto sembra presentare in nuce l’idea, ben sviluppata successivamente in seno alla dottrina marxista, secondo la quale, dall’eliminazione della forma monarchica come dominio di classe, si sarebbe dovuti passare alla soppressione della stessa idea politica di dominio di classe, attraverso anzitutto l’eliminazione delle basi economiche e produttive che stanno alla base della formazione storica delle classi. Così, nell’esperienza della Comune, comincia a fare capolino il principio in base al quale il potere debba essere conquistato non per un interesse di stampo possessivo (rivoluzione per l’acquisto di un potere), bensì per una finalità eminentemente distruttiva (rivoluzione per la rivoluzione). Tornando alla questione relativa alla lotta di classe quale motore della rivoluzione, essa ha ricevuto la massima teorizzazione nel materialismo storico di Karl Marx, il quale fondò l’intera propria opera sull’idea dell’inevitabilità storica del processo di conflittualità tra classi e del trionfo definitivo della classe operaia, con conseguente cancellazione ed eradicazione ab imis dello Stato borghese. In quest’ottica, la caratteristica peculiare della lotta di classe sarebbe quella di essere necessariamente totalizzante, ossia di implicare una rivoluzione totale dello status quo: è chiaro che, in una tale prospettiva di eversione completa Stato, non vi sia spazio per alcun giudizio di valore, il quale implicherebbe ed esigerebbe, di contro, un’attenta discriminazione tra vero e falso, tra giusto ed ingiusto; viceversa, nel moto rivoluzionario vige il “regno della necessità”, nel quale il ribaltamento dello status quo è ritenuto indefettibile ed inesorabile in sé e per sé, senza che tale revolutio ripeta un proprio fondamento o una propria giustificazione in un quid che trascenda il mero fatto del dominio. In questa prospettiva, il partito viene considerato come la forma più alta di organizzazione classista del proletariato: infatti, la situazione socio-economica della Russia d’inizio secolo mostrava una pressoché totale assenza, all’interno del tessuto sociale, di un vero e proprio proletariato industriale, che potesse rappresentare il germe o il “lievito” di un moto autenticamente rivoluzionario; di talché o si avallava il c.d. “attendismo rivoluzionario” (secondo il quale la rivoluzione si sarebbe dovuta procrastinare, in attesa della maturazione delle condizioni economiche “ideali all’esperimento”), o si propendeva per la teoria leninista del partito. In particolare, secondo il pensiero di Lenin, nella Russia del tempo sussisteva un sostanziale deficit antropologico e sociologico di cui era affetto il proletariato russo, il quale rendeva impensabile un abbrivio rivoluzionario spontaneo da parte del corpo sociale; pertanto, al dato quantitativo, costituito dalla massa operaia, si sarebbe dovuto raggiungere un importante dato qualitativo, costituito da un’organizzazione rivoluzionaria rigorosa e scientifica da parte dell’élite, rappresentata dal partito. In chiave leninista, dunque, il processo rivoluzionario non avrebbe potuto prescindere da una “lotta accanita contro la spontaneità”, ossia una inoculazione affatto artificiale e sofisticata dei “germi rivoluzionari” in uno spento e sopito corpo sociale. Alla luce di tali riflessioni, il fenomeno del “terrore” finisce per ri-declinare la categoria del nemico, il quale si trasforma da “nemico reale” a “nemico assoluto”: la stessa teoria schmittiana, pertanto, subisce una nuova prospettazione, che conduce da una “irregolarità della lotta di classe” ad una “irregolarità totale”, la quale supera definitivamente il concetto di guerra convenzionale, per approdare alla criminalizzazione totalizzante del nemico di classe; in breve, all’ostilità assoluta. Si passa, così, dalla figura soggettiva del partigiano, incarnante il concetto “reale” di nemico, alla figura del “rivoluzionario di professione”, che nella disamina schmittiana viene ascritto paradigmaticamente alla figura di Lenin; dunque, comincia a scolorarsi la radice asseritamente politica del fenomeno terroristico. In conclusione, a seguito di tale excursus storico-ideologico, avente ad oggetto la nozione di rivoluzione e di terrore, è evidente come, nonostante le differenti radici ideologiche sottese ai diversi fenomeni storici, il socialismo rivoluzionario russo costituisca una sorta di “cerniera” tra la rivoluzione francese, la Comune parigina e la rivoluzione bolscevica del 1917; in particolare, il fil rouge che connota vieppiù le differenti esperienze di matrice rivoluzionaria è costituito dal montante fanatismo e dall’aberrante e progressiva crescita di una sostanziale autoreferenzialità del fenomeno terroristico, il quale sempre più trova il proprio fulcro non tanto nel “terrore per fini politici”, quanto nel “terrore per il terrore”, in una spiroidale e vorticosa caduta del terrore su se stesso, con conseguente perdita di ogni spessore (sia pur soggettivamente) politico. Si giunge alla terza conclusione interlocutoria, la quale, per certi profili, conferma e rafforza la prima menzionata conclusione: in buona sostanza, l’equazione tra violenza politica e violenza terroristica, nell’ambito della concezione moderna del soggettivismo politico, risulta compiutamente spiegabile nella cornice teorica della c.d. “causa rivoluzionaria totalizzante”, finalizzata all’eliminazione totale di quello che viene definito il “nemico assoluto”, secondo l’ideologa di matrice marxista-leninista; ciò, in sostanziale continuità con i dettami della Rivoluzione francese, della Comune parigina e della rivoluzione bolscevica. Nella terza parte del testo, l’Autore si propone di verificare la coerenza della terza conclusione interlocutoria, alla luce delle vicende del terrorismo italiano del XX secolo. A tal proposito, viene ripercorso sinteticamente il pensiero di Giangiacomo Feltrinelli, il quale fu tra i primi a propugnare l’esigenza di convertire le velleità rivoluzionarie in lotta armata per una strategia globale, comunista ed antimperialista: in tale ottica, avente spiccate venature terzomondiste ed internazionaliste, la rivoluzione si sarebbe dovuta attuare mediante una colossale “unione di forze”, tra azioni di avanguardia e lotte di massa, in un crogiolo internazionale di energie proletarie, provenienti da tutti i continenti, fino a ricomprendere il Vietnam del nord, la Corea popolare, la Cina maoista, l’Armata Rossa sovietica e gli eserciti dei paesi dell’est Europa. Tale ricostruzione, dunque, era in palese contrasto con l’impostazione rivoluzionaria delle Brigate Rosse e di Potere Operaio, i quali, a titolo esemplificativo, avevano ascritto l’Unione Sovietica addirittura alla logica dell’imperialismo mondiale; ciò, tuttavia, non impedì una sostanziale collaborazione dei Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), fondati da Feltrinelli, con Potere Operaio e Brigate Rosse. Ed è proprio in tale periodo, tra gli anni ‘60 e ‘70, che maturava l’idea di un partito armato, intorno alla quale si sviluppano due differenti modi di intendere le ragioni del partito medesimo, nel rapporto con la classe operaia. Secondo l’interpretazione rigidamente marxista-leninista, il proletariato viene ancora inteso come “massa informe”, incapace di una reazione spontanea ed autonoma, con conseguente assunzione, da parte del partito, del ruolo di “fulcro” dell’azione rivoluzionaria; secondo un’impostazione più squisitamente “operaista”, invece, i cui “padri spirituali” sembrano essere Mario Tronti e Toni Negri, il processo rivoluzionario nascerebbe “dal basso”, ossia dalla classe operaia, per giungere infine al partito. In particolare, nelle elaborazioni teoriche di Tronti e Negri, nel cui ambito si sviluppava la dialettica tradizionale tra ‘classe’ e ‘partito’, tra spontaneità ed organizzazione, in un movimento circolare secondo il quale alla classe operaia veniva primariamente riconosciuto un proprio e connaturato afflato rivoluzionario, mentre al partito restava il compito, per certi aspetti “scientifico”, di catalizzare e galvanizzare tali “germi”, mediante la loro selezione ed organizzazione. Da tale tensione problematica sarebbe derivata un’unica, nuova, entità, costituita dal c.d. “partito di classe”, fusione dinamica dei due processi politici, dal basso verso l’alto e viceversa; e in tale prospettiva, dunque, veniva rifiutata alla radice ogni idea di etero-direzione della classe operaia, in quanto il partito veniva concepito non più come un corpo estraneo chedirigesse la classe operaia, bensì come un “tutto organico” con la classe medesima. In poche parole: “la strategia alle masse, la tattica al partito” In tale milieu ideologico si sviluppava la concezione rivoluzionaria di Potere Operaio, secondo la quale l’avanguardia armata si sarebbe dovuta organizzare e coagulare attorno ai c.d. “focolai di lotta insurrezionale”, costruiti nel “partito dell’insurrezione”, idoneo a guidare la militarizzazione del movimento. Alla radice di tale opzione vi è, innanzitutto, una sostanziale adesione alla concezione leninista del partito d’avanguardia; tuttavia, la rigida ascendenza leninista viene superata, mediante la progressiva valorizzazione della lotta armata di massa quale unica strategia asseritamente vincente del movimento operaio. Anche in tal caso, il nemico principale è costituito dallo “spontaneismo” di massa, ossia dall’idea che la società abbia in sé i “germi” di autonomia per superare e comporre da sé i conflitti intersoggettivi; in tale ottica, anche il riformismo viene demonizzato, in quanto considerato espressione di una “moderata” tendenza al compromesso politico e, dunque, di un sostanziale tradimento dei principi rivoluzionari. Per evitare che, in via spontanea, le forze sociali trovino un “autonomo” accordo, l’unico strumento è costituito da un “atto di forza nei confronti del reale”, capace di imporre il punto di vista di classe quale esclusivo schema operativo; si tratta, dunque, di una “violenza non spontanea di massa, preordinata, precostituita, guidata, diretta”. A questo punto della trattazione viene analizzato il periodo storico dei primi anni ‘70, nell’ambito del quale vede la luce il nuovo movimento delle Brigate Rosse, i cui referenti storico-ideologici sono, nuovamente, la Comune parigina e la rivoluzione bolscevica. La lotta armata, anche secondo le Brigate Rosse, reca in sé il distintivo della necessità storica; l’ortodossia, inoltre, lungi da improvvisazioni e spontaneismi, richiede una ferrea e militare organizzazione della violenza, primo obiettivo della violenza rivoluzionaria. In chiave leninista, dunque, la rivoluzione viene concepita come processo “cosciente e forzato”, in quanto, senza un’imposizione politico-militare, la direzione dello scontro di classe è inevitabilmente quella della pacificazione sociale e, dunque, della “morte della rivoluzione”; pertanto, l’avanguardia comunista armata deve fungere da miccia, da innesco per il più ampio ordigno dinamitardo, costituito dalla massa proletaria. Significativa è, in proposito, la seguente affermazione, secondo la quale “non si tratta di organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata, ma di radicare […] la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe”. Peraltro, con riguardo all’impostazione tipica delle Brigate Rosse, emerge una chiara debolezza teorica, la quale consiste nell’irrisolto – e, forse, irrisolvibile – parallelismo, in termini talvolta di distinzione, talaltra di continuità, tra avanguardia e massa; infatti, il Partito viene al contempo concepito come parte organica della massa ma anche come corpo distinto, in una sorta di relazione (apparentemente) dialettica che sembra più frutto di una “intuizione di compromesso” che di una matura scelta ideologica. Infatti, nonostante i tentativi volti a conciliare i due aspetti, il potere rivoluzionario di massa e l’avanguardia organizzata restano due concetti separati e contraddittori, la cui frizione rappresenta la “spia” di una più profonda – e, probabilmente, insanabile – debolezza teorica di cui è affetta tale impostazione. Vengono poi presi in considerazione i fatti concomitanti e successivi al 1980, allorquando si consumava una considerevole frammentazione del fenomeno terroristico-politico: alla fine del 1981, infatti, avveniva la scissione della colonna napoletana e la fondazione delle Brigate Rosse-Partito della Guerriglia; inoltre, a seguito di una riunione della Direzione strategica in Padova, avveniva la fondazione delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente. Infine, nel 1984, si verificava l’ulteriore scissione tra la prima e la seconda Posizione, dalla quale si consolidava, poi, la nascita dell’Unione dei Comunisti Combattenti. In tale contesto le Brigate Rosse-Partito della Guerriglia, sulla scorta di una asserita conflittualità totale ed insanabile fra le classi, propugnavano il progetto di una guerra civile immediata, in relazione alla quale la società italiana appariva del tutto pronta e matura all’azione; tale progetto rivoluzionario implicava il coinvolgimento vieppiù massiccio dell’intero soggetto sociale collettivo, in una perenne dialettica tra avanguardia di matrice leninista e corpo sociale: anche in questo caso, dunque, si perpetuava il dissidio tra avanguardia partitica ed istanze proletarie. Peraltro, le Brigate Rosse-Partito della Guerriglia presentavano, all’interno della propria impostazione ideologica, alcune venature latamente “pauperistiche”, in quanto – almeno in apparenza – predicavano l’inutilità e la deprecabilità di una violenza fine a se stessa, la quale non si facesse latrice dei più profondi e primari bisogni del proletariato. In proposito, tuttavia, è facile smascherare la natura del tutto surretizia e simulata di una tale forma di pauperismo, quantomeno al solo considerare che, a posteriori, la pretesa terroristica di agire in nome dei poveri si è rivelata del tutto soccombente (e, dunque, a priori secondaria), innanzi alle dilaganti ed autoreferenziali istanze rivoluzionarie di matrice leninista, sempre più soverchianti rispetto all’universo di bisogni e di esigenze maturati in senso alla classe operaia. Quanto alle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: all’interno di quest’ultimo movimento, infatti, non si presentava spazio per alcuna soluzione di “internità politica” dell’avanguardia con le masse metropolitane. In tale prospettiva, infatti, il comunismo non era inteso come “bisogno espresso o esprimibile dalle masse, ma [come] concezione di una necessità storica, scientificamente basata sulla possibilità del superamento dei limiti strutturali di un modo di produzione”: palese la frattura tra la programmazione rivoluzionaria armata del partito combattente da un canto, e le istanze di massa d’altro canto. È a dirsi, peraltro, che sin dall’inizio degli anni ‘80, tale processo rivoluzionario assumeva i caratteri di una vera e propria “guerra di classe resistenziale e di lunga durata”, la quale venne poi denominata “ritirata strategica”, a significare il progressivo trasformarsi della lotta in fenomeno latente e prolungato; in tale prospettiva, proprio la ‘ritirata’ avrebbe rappresentato lo strumento operativo e ‘tattico’ per costruire un nuovo impianto teorico ed una nuova linea strategica. Ebbene la “ritirata” avrebbe implicato una definitiva cesura di tutte le connessioni tra avanguardia armata e movimento operaio; purtuttavia, ciò non implicava di certo la rinuncia all’attacco violento ed indiscriminato, quale strumento principe per l’affermazione politica. Proprio lo snodo della “ritirata strategica” e la soluzione di continuità tra istanze rivoluzionarie d’avanguardia ed istanze rivoluzionarie di massa, hanno costituito il trampolino per il finale approdo strettamente distruttivo ed autoreferenziale del fenomeno terroristico, culminato nell’ultimo ventennio: l’assenza di strumentalità della lotta armata a qualsivoglia causa rivoluzionaria ha finito per determinare il sostanziale riconoscimento dell’impossibilità di un avanzamento di tipo politico, con conseguente necessità di uno scontro prolungato con lo Stato, del tutto autoreferenziale e fine a sé stesso. E proprio tale approdo “autoreferenziale” fa emergere, in tutta la sua dirompenza, la contraddizione fondativa del pensiero terroristico-rivoluzionario: se da un lato, infatti, l’originaria teorica rivoluzionaria è, sin dalle origini dell’ideologia, profondamente intrisa di propositi e finalità di carattere politico (pur in senso soggettivistico-volontaristico), dall’altro lato l’esito del fenomeno terroristico si sostanzia nell’esercizio di una violenza cieca ed indiscriminata, del tutto priva di qualsivoglia finalismo politico. Ecco, dunque, che nelle ultime propaggini del fenomeno terroristico, il baricentro teorico dell’ideologia si sposta sempre più dalla finalità autenticamente – seppur soggettivamente – politica, al mero nichilistico bisogno di distruzione; scompare, così, ogni velleità politica, per lasciare il posto ad una distorta ed aberrante estraniazione rispetto al reale. Così, si passa dal prototipo “romantico” del terrorista come uomo intriso di bisogni ed afflati politici, alla patologica caricatura del terrorista, quale individuo emarginato, alienato, estraniato, che sfoga la propria volontà distruttiva, senza più tenere in considerazione ciò che gli sta attorno. Insomma, dal terrorismo politico al distruttivismo a-politico. Considerati gli estremi approdi del fenomeno terroristico si arriva così ad una quarta conclusione, oltre l’interlocutorio: alla luce dell’indagine circa i prodromi teorici e gli ultimi esiti operativi dell’ideologia del terrore, può concludersi che il fenomeno terroristico-rivoluzionario contenga in sé, in nuce, il concetto di violenza distruttrice, indiscriminata e terrorizzante; e dunque, l’approdo autoreferenziale ed aberrante cui giunge il terrorismo, lungi dal costituire una mera deviazione rispetto ad un integro e puro percorso teorico, tradisce una sostanziale debolezza – se non, addirittura, una inconsistenza teorica – di cui sembra affetta l’intera ideologia terroristica, sin dalle proprie fondamenta.

Il diritto e il terrore. Alle radici teoriche della finalità  di terrorismo.

BERARDI, ALBERTO
2008

Abstract

L’opera trova il proprio fulcro strutturale e metodologico nell’individuazione di alcuni profili teorico-problematici, alla ricerca dell’ubi consistam della finalità di terrorismo. In particolare, vengono individuati alcuni approdi classificatori, elaborati da dottrina e giurisprudenza in subiecta materia; in seguitovengono enucleate quattro “conclusioni interlocutorie”, suscettibili di superamento. Infine, la ricerca termina con una quinta conclusione, “alla ricerca del definitivo”, nella quale si disvela il “retroterra” antropologico e, al limite, escatologico della categoria del terrorismo. Nella prima parte del testo è riportata una sequenza normativa ragionata riguardante gli atti normativi in tema di criminalità politico-sovversiva, dagli anni ‘70 ad oggi, ossia dalla l. 14 ottobre 1974, n. 497 (Nuove norme contro la criminalità), alla l. 22 maggio 1975, n. 152 (c.d. “legge Reale” denominata “Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico”), sino a giungere alla legislazione antiterrorismo più recente, successiva ai fatti dell’11 settembre 2001. Nella seconda parte del testo, vengono individuati ed analizzati i caratteri fondamentali del terrorismo, i quali emergono dall’analisi normativa e dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale: si tratta del ricorso alla violenza efferata e del fine di carattere politico. Il primo elemento si riferisce al comune uso, da parte dei terroristi, di mezzi cruenti, idonei a creare il panico nella collettività e a provocare grave danno o pericolo per l’incolumità pubblica. Tale rilievo, tuttavia, appare sin da subito affetto da una chiara “insufficienza definitoria”, in quanto è evidente che la violenza non connota esclusivamente il fenomeno terroristico, ma è sostanzialmente comune a numerose dinamiche delittuose, quale, in primis, la criminalità organizzata; quest’ultima, infatti, generalmente, si serve anch’essa di mezzi violenti o intimidatori al fine di stabilire, cristallizzare e mantenere il proprio dominio sul territorio. Ma anche il confronto tra il terrorismo e la c.d. “violenza convenzionale” diviene dubbio, se non imbarazzante, laddove si focalizzi l’attenzione esclusivamente sulla declinazione violenta di tali due fenomeni. Al fine di cogliere l’essenza del terrorismo, dunque, stante l’insufficienza definitoria del concetto di “violenza efferata”, appare necessario abbinare a quest’ultimo il secondo elemento del binomio, ossia il fine eminentemente politico, il quale contraddistingue – recte, sembra contraddistinguere – la finalità terroristica rispetto ad altre finalità criminose estrinsecantisi in episodi di violenza. Proprio sul profilo ‘politico’, dunque, si concentra l’attenzione, onde comprendere, tra le tante accezioni della politikè téchne, quale sia quella più connaturata alla matrice terroristica. In proposito, viene in rilievo la nota riflessione in tema di “politica”, la quale principia dalla considerazione della natura “ambigua” di tale termine: infatti, il termine “politica”, che letteralmente significa “della polis”, ossia “della città”, “porta con sé l’ambiguità caratterizzante ogni genitivo, che si lascia intendere indifferentemente nel senso soggettivo, come in quello oggettivo”[3]. Nel senso oggettivo, la “politica” è tutta rivolta “a valle”, ossia concerne i problemi della convivenza comunitaria, in una prospettiva globale e non partigiana, caratterizzata dalla composizione dialettica dei contrasti sociali; nel senso soggettivo, invece, la “politica” indica, “a monte”, tutto ciò che riguarda il soggetto ‘Stato’, quale entità autoreferenziale ed autosufficiente, la quale ha, sostanzialmente, la natura della “parte” che diviene “tutto” mediante un atto di volontà, di potere e, in definitiva, di forza. Ebbene, è evidente che, trattando del fine ‘politico’ connaturato al terrorismo (o meglio, alla radice iniziale di esso), si fa riferimento ad un’istanza soggettivamente politica, ossia un afflato politico caratterizzato dal trinomio volontà-potere-forza; infatti, non v’è chi non scorga, alla base del fenomeno terroristico, proprio la volontà di sovrapposizione, sopraffazione, dominio di una parte sul tutto. E tale approccio sottende, ancor più a monte, un’adesione al paradigma contrattualistico, quale modello teorico nel quale lo Stato moderno viene fondato sulla c.d. “istituzionalizzazione del conflitto”: se, infatti, si fa risalire la fondazione della comunità politica ad un atto di volontà e di forza, tramite il quale alla forza ed alla violenza della moltitudine si sostituiscono, mediante reductio ad unum, la forza e la violenza dell’Uno (ossia, dello Stato), quale modo migliore per rovesciare lo status quo se non quello di sottoporre lo Stato esistente alla sua stessa violenza fondativa, in una spirale ciclica di terrore? E proprio il riferimento all’istanza “soggettivo-politica” tipica del fenomeno terroristico non può non rinviare al tema schmittiano della “soggettività del nemico”; infatti, proprio la cornice teorica del “conflitto” radicale, tipica del pensiero di Carl Schmitt, pare avere numerose affinità concettuali con la parallela teorica del “terrore permanente”. In tale ottica, “l’aggregazione politica si presenta come aggregazione di conflittualità sin dalla sua definizione, quella definizione che considera la politica secondo la prospettiva unilaterale del conflitto, quale sua unica fonte” (pag. 58). In via di prima approssimazione, come in Carl Schmitt, così nell’ambito del “sistema terroristico”, il conflitto diviene unico metro, uno criterio di giudizio che consente di distinguere ciò che è politico da ciò che politico non è; al limite, l’eliminazione fisica del nemico, quale condicio sine qua non dell’affermazione del potere, diviene strumento ammissibile, se non addirittura necessitato della dinamica politica. Alla luce di ciò, dunque, la prima conclusione interlocutoria è la seguente: innanzi alla “insufficienza classificatoria” cui va incontro una ricostruzione del fenomeno terroristico in chiave di mera violenza efferata, il secondo elemento costitutivo, rappresentato dalla finalità politica, assume un significato strettamente soggettivo. Al fine di verificare la fondatezza di tale prima conclusione interlocutoria, viene ripresa la distinzione tra il concetto schmittiano di “nemico pubblico” o “esterno” (hostis, in greco polémios) ed il concetto classico di inimicus (in greco ékthros), con particolare attenzione alla parallela contrapposizione tra la guerra “esterna” e la sedizione “interna” alla comunità politica: nella guerra, infatti, la polis combatte contro l’hostis esterno, il quale, in quanto extraneus, non viene fatto oggetto di riconoscimento alcuno da parte del civis; viceversa, nella sedizione, è come se la polis – cui appartiene anche l’inimicus – combattesse con sé stessa, in un fase in cui la fisiologica amicizia si tramuta, temporaneamente, in mera discordia, senza sfociare mai in guerra totale. Ora, in chiave schmittiana, la coppia amico/nemico, che costituisce il nucleo teorico di ogni politica, si lega al significato “esterno” di nemico, ossia fa riferimento alla guerra tra il cittadino e l’hostis estraneo alla comunità: tant’è che, nel pensiero di Schmitt, il nemico è concepito come un “corpo estraneo” ed esterno rispetto al perimetro della polis. Tuttavia, tale paradigma teorico non pare affatto applicabile al fenomeno terroristico, il quale – al di là delle sue ultime declinazioni internazionalistiche, la cui riconduzione al terrorismo “tradizionale” è tutta da dimostrare – assume ontologicamente una portata tradizionalmente “interna” al sistema politico: infatti, il terrorista nasce come cellula “tumorale” che scava, dall’interno, il corpo politico, al fine di destabilizzarlo e, infine, rovesciarlo; inoltre, alle dinamiche terroristiche appare del tutto estraneo il c.d. “diritto di guerra”, il quale regola e disciplina la dimensione “internazionalistico-bellica” del conflitto. Peraltro, a ben vedere, la distanza teorica tra fenomeno terroristico e teoria schmittiana del nemico si rende vieppiù insuperabile, se solo si pone mente agli esiti estremi raggiunti dal giurista di Plettenberg: infatti, il concetto schmittiano di hostis, o nemico esterno, da combattere in ogni caso e a tutti i costi quale non-io da annientare, è tale solo in virtù di una forma – se pur affatto peculiare – di riconoscimento; o meglio, amico e nemico sono tali, solo ove si instauri reciprocamente una relazione, in base alla quale il nemico viene qualificato come tale da parte del civis. E, al limite, se con il nemico si giunge ad un “trattato di pace”, tale accordo postula, ancor di più, un precedente atto di reciproco riconoscimento tra i due soggetti, in virtù del quale si perviene all’hostis iustus, ossia del nemico che, in quanto riconosciuto, diviene “qualcuno”, e non più una scheggia impazzita o un mero delinquente da neutralizzare. Al limite, dunque, il nemico schmittiano acquista il “diritto” di essere tale, è “legittimato” ad essere tale in ragione di un “diritto di guerra”, a differenza delle categorie residuali dei ribelli, dei criminali e dei pirati, hostes irriducibili e non riconducibili nell’alveo del ‘giuridico’. Ecco, allora, che l’incompatibilità tra teoria schmittiana del nemico e teoria soggettiva del “terrorista” diviene insanabile: da un lato l’hostis, il quale, al limite, diviene iustus; dall’altro lato, il terrorista che, al pari dei summenzionati soggetti (ribelli, criminali e pirati), non è in nessun caso suscettibile di essere “riconosciuto” da parte della comunità politica. In conclusione, l’incompatibilità tra la coppia categoriale “amico-nemico” e le radici teoriche del fenomeno terroristico tradisce proprio l’insufficienza concettuale di cui è affetta una ricostruzione politico-soggettivistica del terrorismo, che si fondi esclusivamente sul binomio soggettivo schmittiano. Ma allora diviene claudicante anche una prima conclusione interlocutoria, che individui quale ubi consistam del terrorismo – oltre alla violenza efferata – la finalità politica soggettivamente intesa, in ragione del fatto che, ove l’accezione soggettiva del genitivo “politica” venga fatta coincidere con l’asse portante del terrorismo, si finisce per attribuire alla finalità di terrorismo una valenza affatto contingente, connessa al punto di vista del soggetto vincente nel conflitto; in altri termini, si giunge all’aporia secondo la quale la “parte forte”, risultata vincente nel conflitto sociale, acquista di fatto il potere di qualificare il proprio agire come politico e l’agire del “perdente” come terroristico: evidente la perdita di qualsivoglia spessore assiologico connessa ad una siffatta impostazione. A tale punto della riflessione s’innesta una duplice indagine teorica: da un lato, una riflessione relativa alla nozione penalistica di ‘delitto politico’; dall’altro, un’attenta analisi storico-linguistica, concernente il lemma ‘terrorismo’. Alla luce della categoria penalistica del delitto politico, ci si chiede se il fenomeno criminoso di matrice terroristica possa essere ricondotto, sia in chiave rigoristica sia in chiave garantistica, a tale categoria teorica, con le conseguenze applicative che ne possano derivare. De iure condito, al di là delle numerose argomentazioni teoriche in tal senso, un dato normativo trancia la questione alla radice: la Convenzione europea di Strasburgo del 1977 per la repressione del terrorismo, nonché la Convenzione internazionale di New York del 1997, vietano espressamente la possibilità di qualificare come politici, agli effetti dell’estradizione, i delitti terroristici. È evidente che tale espresso divieto denota una sostanziale inadeguatezza della categoria del delitto politico a comprendere la legislazione antiterrorismo; e tale è, dunque, l’incontestabile approdo del diritto vivente, il quale assume vieppiù profili di interesse teorico, laddove venga progressivamente accostato alla diametrale tendenza, da parte delle frange terroristiche maggioritarie, all’auto-qualificazione in termini di “politicità”. Sul versante d’approfondimento storico-linguistico, il termine “terrorismo” si afferma in Francia alla fine del 18° secolo e viene inizialmente riferito alla condotta dei Giacobini e, successivamente, al régime de la terreur; sul punto, è significativo notare come, dal punto di vista etimologico, il lemma terrorisme nasca, si diffonda e si sviluppi in modo autonomo rispetto all’ascendenza linguistica latina: infatti, da un lato il classico terror (paura, terrore), ha subìto la naturale ramificazione linguistica nei differenti idiomi europei (Furcht e Schrecken in area germanica, fear e scare in area anglosassone); dall’altro, invece, il termine “terrorismo” ha guadagnato ben presto un autonomo sviluppo semantico, rimanendo quasi invariato nei differenti paesi europei (terrorism in Francia, terrorismus in Germania). Ciò sta ad indicare, probabilmente, che l’area semantica del “terrorismo” non risente – quantomeno, in modo immediato e diretto – dell’influenza della differente area semantica costituita dalla triade “terrore-paura-panico”. Allora, il riferimento del “terrorismo” è, storicamente, al “regime del terrore” instaurato nella lunga stagione francese, dall’estate del 1789, al maggio del 1793, al luglio del 1794, stagione che affonda le proprie radici nell’esperienza epocale della Rivoluzione Francese; e dunque, il terrorismo, più che al terrore, si ricollega strutturalmente alla cornice teorica della rivoluzione. Il termine revolutio, ignoto al latino classico, compare nel De Civitate Dei di Sant’Agostino, per designare originariamente il moto circolare ed il ritorno ciclico dei tempi; in ambito astronomico, il termine rinvia al moto necessario, irresistibile e ciclico degli astri; in ambito politico, invece, esso assume il significato di un “ritorno ciclico di forme politiche ricorrenti nella storia”. Alla fine del ‘700, il termine ‘rivoluzione’ si unisce, quasi a creare un’antonomasia, all’esperienza politica francese e giunge a rappresentare un improvviso e radicale capovolgimento dello status quo e delle strutture istituzionali in essere; tale dinamismo ciclico è caratterizzato sin da subito da una prospettiva autoreferenziale e volontaristica, tipica di un potere arbitrario che intende imporsi e farsi valere con il solo uso della forza; inoltre, l’applicazione del termine “rivoluzione”, implicitamente connesso alla natura necessaria ed irresistibile del moto astrale, all’ambito politico, conduce a qualificare il fenomeno politico-rivoluzionario in termini di necessità, invincibilità ed irresistibilità. In tale chiave, la terreur assume un ruolo eminentemente strumentale, assurgendo a mezzo principe per l’affermazione del “nuovo potere”: il “terrore” – e, dunque, il terrorismo – si lega strettamente all’idea secondo la quale il regime istituzionale ha, come strumento principe di auto-affermazione, il ricorso alla repressione efferata, per il tramite di un governo di matrice emergenziale. Paradigmatico di tale impostazione è l’ordine impartito da Robespierre alla Convenzione, in data 8 maggio 1793: “tutte le persone sospette siano considerate come ostaggi e siano messe in stato di arresto”; in tale ottica, al limite, in chiave “terroristica”, la morte diviene lo strumento principale per la neutralizzazione dei conflitti politici. Il patibolo, come osserva Albert Camus, diviene strumento che “assicura l’unità, l’armonia della città, depura la repubblica, elimina le scorie che vengono a contraddire la volontà generale e la ragione universale”; inquietante il riferimento alle “scorie”, sinistramente vicino all’idea futuristica della guerra come strumento di “igiene” del mondo. In tale prospettiva, “il terrore mortifero quale essenza stessa della Rivoluzione, quale tratto caratteristico dell’attività del rivoluzionario e della sua mentalità, nasce per iniziativa dello Stato, nell’interesse di esso, incarnando l’accezione più forte del soggettivismo politico, in nome del quale la politica, con la distribuzione generalizzata della violenza più furiosa, si rafforza, mostra la sua connotazione bellica e, previamente, la sua intima radice conflittuale”: è evidente che una tale teorica del terrore costituisce, in ultima analisi, l’estremo e maturo compimento della radice ideologica rappresentata nel Contratto sociale di Rousseau, ossia l’idea secondo la quale il destino politico dell’individuo consiste nell’alienazione integrale in favore della comunità, la quale perviene ad un controllo capillare del corpo sociale mediante l’esercizio unilaterale –democraticamente condiviso – del proprio potere. A questo punto, s’innesta l’analisi propaggini storiche dipartitesi dalla Rivoluzione Francese, fino a giungere alla rivoluzione del 22 febbraio 1848, con la proclamazione della Seconda Repubblica, nonché all’esperienza della Comune di Parigi del 1871, con la successiva ricostituzione dell’unità territoriale della Terza Repubblica, tutto all’insegna della repressione violenta e del terrore più spietato. In particolare, l’esperienza comunarda appare suscitare un notevole interesse in capo allo studioso della rivoluzione, in quanto sembra presentare in nuce l’idea, ben sviluppata successivamente in seno alla dottrina marxista, secondo la quale, dall’eliminazione della forma monarchica come dominio di classe, si sarebbe dovuti passare alla soppressione della stessa idea politica di dominio di classe, attraverso anzitutto l’eliminazione delle basi economiche e produttive che stanno alla base della formazione storica delle classi. Così, nell’esperienza della Comune, comincia a fare capolino il principio in base al quale il potere debba essere conquistato non per un interesse di stampo possessivo (rivoluzione per l’acquisto di un potere), bensì per una finalità eminentemente distruttiva (rivoluzione per la rivoluzione). Tornando alla questione relativa alla lotta di classe quale motore della rivoluzione, essa ha ricevuto la massima teorizzazione nel materialismo storico di Karl Marx, il quale fondò l’intera propria opera sull’idea dell’inevitabilità storica del processo di conflittualità tra classi e del trionfo definitivo della classe operaia, con conseguente cancellazione ed eradicazione ab imis dello Stato borghese. In quest’ottica, la caratteristica peculiare della lotta di classe sarebbe quella di essere necessariamente totalizzante, ossia di implicare una rivoluzione totale dello status quo: è chiaro che, in una tale prospettiva di eversione completa Stato, non vi sia spazio per alcun giudizio di valore, il quale implicherebbe ed esigerebbe, di contro, un’attenta discriminazione tra vero e falso, tra giusto ed ingiusto; viceversa, nel moto rivoluzionario vige il “regno della necessità”, nel quale il ribaltamento dello status quo è ritenuto indefettibile ed inesorabile in sé e per sé, senza che tale revolutio ripeta un proprio fondamento o una propria giustificazione in un quid che trascenda il mero fatto del dominio. In questa prospettiva, il partito viene considerato come la forma più alta di organizzazione classista del proletariato: infatti, la situazione socio-economica della Russia d’inizio secolo mostrava una pressoché totale assenza, all’interno del tessuto sociale, di un vero e proprio proletariato industriale, che potesse rappresentare il germe o il “lievito” di un moto autenticamente rivoluzionario; di talché o si avallava il c.d. “attendismo rivoluzionario” (secondo il quale la rivoluzione si sarebbe dovuta procrastinare, in attesa della maturazione delle condizioni economiche “ideali all’esperimento”), o si propendeva per la teoria leninista del partito. In particolare, secondo il pensiero di Lenin, nella Russia del tempo sussisteva un sostanziale deficit antropologico e sociologico di cui era affetto il proletariato russo, il quale rendeva impensabile un abbrivio rivoluzionario spontaneo da parte del corpo sociale; pertanto, al dato quantitativo, costituito dalla massa operaia, si sarebbe dovuto raggiungere un importante dato qualitativo, costituito da un’organizzazione rivoluzionaria rigorosa e scientifica da parte dell’élite, rappresentata dal partito. In chiave leninista, dunque, il processo rivoluzionario non avrebbe potuto prescindere da una “lotta accanita contro la spontaneità”, ossia una inoculazione affatto artificiale e sofisticata dei “germi rivoluzionari” in uno spento e sopito corpo sociale. Alla luce di tali riflessioni, il fenomeno del “terrore” finisce per ri-declinare la categoria del nemico, il quale si trasforma da “nemico reale” a “nemico assoluto”: la stessa teoria schmittiana, pertanto, subisce una nuova prospettazione, che conduce da una “irregolarità della lotta di classe” ad una “irregolarità totale”, la quale supera definitivamente il concetto di guerra convenzionale, per approdare alla criminalizzazione totalizzante del nemico di classe; in breve, all’ostilità assoluta. Si passa, così, dalla figura soggettiva del partigiano, incarnante il concetto “reale” di nemico, alla figura del “rivoluzionario di professione”, che nella disamina schmittiana viene ascritto paradigmaticamente alla figura di Lenin; dunque, comincia a scolorarsi la radice asseritamente politica del fenomeno terroristico. In conclusione, a seguito di tale excursus storico-ideologico, avente ad oggetto la nozione di rivoluzione e di terrore, è evidente come, nonostante le differenti radici ideologiche sottese ai diversi fenomeni storici, il socialismo rivoluzionario russo costituisca una sorta di “cerniera” tra la rivoluzione francese, la Comune parigina e la rivoluzione bolscevica del 1917; in particolare, il fil rouge che connota vieppiù le differenti esperienze di matrice rivoluzionaria è costituito dal montante fanatismo e dall’aberrante e progressiva crescita di una sostanziale autoreferenzialità del fenomeno terroristico, il quale sempre più trova il proprio fulcro non tanto nel “terrore per fini politici”, quanto nel “terrore per il terrore”, in una spiroidale e vorticosa caduta del terrore su se stesso, con conseguente perdita di ogni spessore (sia pur soggettivamente) politico. Si giunge alla terza conclusione interlocutoria, la quale, per certi profili, conferma e rafforza la prima menzionata conclusione: in buona sostanza, l’equazione tra violenza politica e violenza terroristica, nell’ambito della concezione moderna del soggettivismo politico, risulta compiutamente spiegabile nella cornice teorica della c.d. “causa rivoluzionaria totalizzante”, finalizzata all’eliminazione totale di quello che viene definito il “nemico assoluto”, secondo l’ideologa di matrice marxista-leninista; ciò, in sostanziale continuità con i dettami della Rivoluzione francese, della Comune parigina e della rivoluzione bolscevica. Nella terza parte del testo, l’Autore si propone di verificare la coerenza della terza conclusione interlocutoria, alla luce delle vicende del terrorismo italiano del XX secolo. A tal proposito, viene ripercorso sinteticamente il pensiero di Giangiacomo Feltrinelli, il quale fu tra i primi a propugnare l’esigenza di convertire le velleità rivoluzionarie in lotta armata per una strategia globale, comunista ed antimperialista: in tale ottica, avente spiccate venature terzomondiste ed internazionaliste, la rivoluzione si sarebbe dovuta attuare mediante una colossale “unione di forze”, tra azioni di avanguardia e lotte di massa, in un crogiolo internazionale di energie proletarie, provenienti da tutti i continenti, fino a ricomprendere il Vietnam del nord, la Corea popolare, la Cina maoista, l’Armata Rossa sovietica e gli eserciti dei paesi dell’est Europa. Tale ricostruzione, dunque, era in palese contrasto con l’impostazione rivoluzionaria delle Brigate Rosse e di Potere Operaio, i quali, a titolo esemplificativo, avevano ascritto l’Unione Sovietica addirittura alla logica dell’imperialismo mondiale; ciò, tuttavia, non impedì una sostanziale collaborazione dei Gruppi d’Azione Partigiana (GAP), fondati da Feltrinelli, con Potere Operaio e Brigate Rosse. Ed è proprio in tale periodo, tra gli anni ‘60 e ‘70, che maturava l’idea di un partito armato, intorno alla quale si sviluppano due differenti modi di intendere le ragioni del partito medesimo, nel rapporto con la classe operaia. Secondo l’interpretazione rigidamente marxista-leninista, il proletariato viene ancora inteso come “massa informe”, incapace di una reazione spontanea ed autonoma, con conseguente assunzione, da parte del partito, del ruolo di “fulcro” dell’azione rivoluzionaria; secondo un’impostazione più squisitamente “operaista”, invece, i cui “padri spirituali” sembrano essere Mario Tronti e Toni Negri, il processo rivoluzionario nascerebbe “dal basso”, ossia dalla classe operaia, per giungere infine al partito. In particolare, nelle elaborazioni teoriche di Tronti e Negri, nel cui ambito si sviluppava la dialettica tradizionale tra ‘classe’ e ‘partito’, tra spontaneità ed organizzazione, in un movimento circolare secondo il quale alla classe operaia veniva primariamente riconosciuto un proprio e connaturato afflato rivoluzionario, mentre al partito restava il compito, per certi aspetti “scientifico”, di catalizzare e galvanizzare tali “germi”, mediante la loro selezione ed organizzazione. Da tale tensione problematica sarebbe derivata un’unica, nuova, entità, costituita dal c.d. “partito di classe”, fusione dinamica dei due processi politici, dal basso verso l’alto e viceversa; e in tale prospettiva, dunque, veniva rifiutata alla radice ogni idea di etero-direzione della classe operaia, in quanto il partito veniva concepito non più come un corpo estraneo chedirigesse la classe operaia, bensì come un “tutto organico” con la classe medesima. In poche parole: “la strategia alle masse, la tattica al partito” In tale milieu ideologico si sviluppava la concezione rivoluzionaria di Potere Operaio, secondo la quale l’avanguardia armata si sarebbe dovuta organizzare e coagulare attorno ai c.d. “focolai di lotta insurrezionale”, costruiti nel “partito dell’insurrezione”, idoneo a guidare la militarizzazione del movimento. Alla radice di tale opzione vi è, innanzitutto, una sostanziale adesione alla concezione leninista del partito d’avanguardia; tuttavia, la rigida ascendenza leninista viene superata, mediante la progressiva valorizzazione della lotta armata di massa quale unica strategia asseritamente vincente del movimento operaio. Anche in tal caso, il nemico principale è costituito dallo “spontaneismo” di massa, ossia dall’idea che la società abbia in sé i “germi” di autonomia per superare e comporre da sé i conflitti intersoggettivi; in tale ottica, anche il riformismo viene demonizzato, in quanto considerato espressione di una “moderata” tendenza al compromesso politico e, dunque, di un sostanziale tradimento dei principi rivoluzionari. Per evitare che, in via spontanea, le forze sociali trovino un “autonomo” accordo, l’unico strumento è costituito da un “atto di forza nei confronti del reale”, capace di imporre il punto di vista di classe quale esclusivo schema operativo; si tratta, dunque, di una “violenza non spontanea di massa, preordinata, precostituita, guidata, diretta”. A questo punto della trattazione viene analizzato il periodo storico dei primi anni ‘70, nell’ambito del quale vede la luce il nuovo movimento delle Brigate Rosse, i cui referenti storico-ideologici sono, nuovamente, la Comune parigina e la rivoluzione bolscevica. La lotta armata, anche secondo le Brigate Rosse, reca in sé il distintivo della necessità storica; l’ortodossia, inoltre, lungi da improvvisazioni e spontaneismi, richiede una ferrea e militare organizzazione della violenza, primo obiettivo della violenza rivoluzionaria. In chiave leninista, dunque, la rivoluzione viene concepita come processo “cosciente e forzato”, in quanto, senza un’imposizione politico-militare, la direzione dello scontro di classe è inevitabilmente quella della pacificazione sociale e, dunque, della “morte della rivoluzione”; pertanto, l’avanguardia comunista armata deve fungere da miccia, da innesco per il più ampio ordigno dinamitardo, costituito dalla massa proletaria. Significativa è, in proposito, la seguente affermazione, secondo la quale “non si tratta di organizzare il movimento di massa sul terreno della lotta armata, ma di radicare […] la coscienza politica della sua necessità storica nel movimento di classe”. Peraltro, con riguardo all’impostazione tipica delle Brigate Rosse, emerge una chiara debolezza teorica, la quale consiste nell’irrisolto – e, forse, irrisolvibile – parallelismo, in termini talvolta di distinzione, talaltra di continuità, tra avanguardia e massa; infatti, il Partito viene al contempo concepito come parte organica della massa ma anche come corpo distinto, in una sorta di relazione (apparentemente) dialettica che sembra più frutto di una “intuizione di compromesso” che di una matura scelta ideologica. Infatti, nonostante i tentativi volti a conciliare i due aspetti, il potere rivoluzionario di massa e l’avanguardia organizzata restano due concetti separati e contraddittori, la cui frizione rappresenta la “spia” di una più profonda – e, probabilmente, insanabile – debolezza teorica di cui è affetta tale impostazione. Vengono poi presi in considerazione i fatti concomitanti e successivi al 1980, allorquando si consumava una considerevole frammentazione del fenomeno terroristico-politico: alla fine del 1981, infatti, avveniva la scissione della colonna napoletana e la fondazione delle Brigate Rosse-Partito della Guerriglia; inoltre, a seguito di una riunione della Direzione strategica in Padova, avveniva la fondazione delle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente. Infine, nel 1984, si verificava l’ulteriore scissione tra la prima e la seconda Posizione, dalla quale si consolidava, poi, la nascita dell’Unione dei Comunisti Combattenti. In tale contesto le Brigate Rosse-Partito della Guerriglia, sulla scorta di una asserita conflittualità totale ed insanabile fra le classi, propugnavano il progetto di una guerra civile immediata, in relazione alla quale la società italiana appariva del tutto pronta e matura all’azione; tale progetto rivoluzionario implicava il coinvolgimento vieppiù massiccio dell’intero soggetto sociale collettivo, in una perenne dialettica tra avanguardia di matrice leninista e corpo sociale: anche in questo caso, dunque, si perpetuava il dissidio tra avanguardia partitica ed istanze proletarie. Peraltro, le Brigate Rosse-Partito della Guerriglia presentavano, all’interno della propria impostazione ideologica, alcune venature latamente “pauperistiche”, in quanto – almeno in apparenza – predicavano l’inutilità e la deprecabilità di una violenza fine a se stessa, la quale non si facesse latrice dei più profondi e primari bisogni del proletariato. In proposito, tuttavia, è facile smascherare la natura del tutto surretizia e simulata di una tale forma di pauperismo, quantomeno al solo considerare che, a posteriori, la pretesa terroristica di agire in nome dei poveri si è rivelata del tutto soccombente (e, dunque, a priori secondaria), innanzi alle dilaganti ed autoreferenziali istanze rivoluzionarie di matrice leninista, sempre più soverchianti rispetto all’universo di bisogni e di esigenze maturati in senso alla classe operaia. Quanto alle Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente: all’interno di quest’ultimo movimento, infatti, non si presentava spazio per alcuna soluzione di “internità politica” dell’avanguardia con le masse metropolitane. In tale prospettiva, infatti, il comunismo non era inteso come “bisogno espresso o esprimibile dalle masse, ma [come] concezione di una necessità storica, scientificamente basata sulla possibilità del superamento dei limiti strutturali di un modo di produzione”: palese la frattura tra la programmazione rivoluzionaria armata del partito combattente da un canto, e le istanze di massa d’altro canto. È a dirsi, peraltro, che sin dall’inizio degli anni ‘80, tale processo rivoluzionario assumeva i caratteri di una vera e propria “guerra di classe resistenziale e di lunga durata”, la quale venne poi denominata “ritirata strategica”, a significare il progressivo trasformarsi della lotta in fenomeno latente e prolungato; in tale prospettiva, proprio la ‘ritirata’ avrebbe rappresentato lo strumento operativo e ‘tattico’ per costruire un nuovo impianto teorico ed una nuova linea strategica. Ebbene la “ritirata” avrebbe implicato una definitiva cesura di tutte le connessioni tra avanguardia armata e movimento operaio; purtuttavia, ciò non implicava di certo la rinuncia all’attacco violento ed indiscriminato, quale strumento principe per l’affermazione politica. Proprio lo snodo della “ritirata strategica” e la soluzione di continuità tra istanze rivoluzionarie d’avanguardia ed istanze rivoluzionarie di massa, hanno costituito il trampolino per il finale approdo strettamente distruttivo ed autoreferenziale del fenomeno terroristico, culminato nell’ultimo ventennio: l’assenza di strumentalità della lotta armata a qualsivoglia causa rivoluzionaria ha finito per determinare il sostanziale riconoscimento dell’impossibilità di un avanzamento di tipo politico, con conseguente necessità di uno scontro prolungato con lo Stato, del tutto autoreferenziale e fine a sé stesso. E proprio tale approdo “autoreferenziale” fa emergere, in tutta la sua dirompenza, la contraddizione fondativa del pensiero terroristico-rivoluzionario: se da un lato, infatti, l’originaria teorica rivoluzionaria è, sin dalle origini dell’ideologia, profondamente intrisa di propositi e finalità di carattere politico (pur in senso soggettivistico-volontaristico), dall’altro lato l’esito del fenomeno terroristico si sostanzia nell’esercizio di una violenza cieca ed indiscriminata, del tutto priva di qualsivoglia finalismo politico. Ecco, dunque, che nelle ultime propaggini del fenomeno terroristico, il baricentro teorico dell’ideologia si sposta sempre più dalla finalità autenticamente – seppur soggettivamente – politica, al mero nichilistico bisogno di distruzione; scompare, così, ogni velleità politica, per lasciare il posto ad una distorta ed aberrante estraniazione rispetto al reale. Così, si passa dal prototipo “romantico” del terrorista come uomo intriso di bisogni ed afflati politici, alla patologica caricatura del terrorista, quale individuo emarginato, alienato, estraniato, che sfoga la propria volontà distruttiva, senza più tenere in considerazione ciò che gli sta attorno. Insomma, dal terrorismo politico al distruttivismo a-politico. Considerati gli estremi approdi del fenomeno terroristico si arriva così ad una quarta conclusione, oltre l’interlocutorio: alla luce dell’indagine circa i prodromi teorici e gli ultimi esiti operativi dell’ideologia del terrore, può concludersi che il fenomeno terroristico-rivoluzionario contenga in sé, in nuce, il concetto di violenza distruttrice, indiscriminata e terrorizzante; e dunque, l’approdo autoreferenziale ed aberrante cui giunge il terrorismo, lungi dal costituire una mera deviazione rispetto ad un integro e puro percorso teorico, tradisce una sostanziale debolezza – se non, addirittura, una inconsistenza teorica – di cui sembra affetta l’intera ideologia terroristica, sin dalle proprie fondamenta.
2008
9788813283988
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