Tra le novità più importanti che attorno alle tematiche delle disabilità sono venute registrandosi in questi ultimi anni una posizione particolarmente rilevante va riconosciuta al dibattito a proposito della qualità della vita (QDV). Si tratta di un concetto importante che sta assumendo persino il ruolo di criterio di legittimazione e validazione degli interventi biomedici, abilitativi e riabilitativi che vengono realizzati dal momento che, con sempre maggior insistenza, si ritiene che lo scopo ultimo di ogni trattamento debba essere quello di far sperimentare alla persona che lo riceve condizioni di vita e livelli di soddisfazione per la propria esistenza decisamente più consistenti di quelli precedentemente esperiti. I tassi di mortalità e di morbilità, che venivano tradizionalmente considerati alla stregua di indicatori di salute, per quanto importanti e utili, sono oggi ritenuti insoddisfacenti per descrivere lo stato di benessere delle persone proprio perché considerano le loro patologie piuttosto che la loro salute. La definizione che di benessere propone l’Organizzazione mondiale della sanità, d’altra parte, si riferisce a uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», e non semplicemente all'assenza di malattia, suggerendo di fatto di considerare la qualità della vita delle persone come una stima particolarmente appropriata e sofisticata degli stessi costrutti di benessere e salute. Il concetto di fornisce così un interessante contributo per la precisazione del peso che possono avere le malattie, le menomazioni, le disabilità, le restrizioni che si possono registrare nelle attività che le persone svolgono nei loro livelli di partecipazione, ma anche l’efficacia e la «validità» dei trattamenti e delle cure che vengono poste in essere. Parlando di benessere si devono infatti considerare, come suggerisce anche Cowen [1994], accanto all’assenza di malattie e alla soddisfazione dei bisogni fondamentali, alcuni aspetti “psicologici” e “relazionali” che tradizionalmente non venivano presi in considerazione parlando semplicemente di «salute». Si pensi, a esempio, all’importanza che deve essere riconosciuta a quanto la persona si sente a proprio agio nell’ambiente familiare e professionale (scuola e lavoro), al grado di soddisfazione sperimentato nel corso delle proprie relazioni interpersonali, possibilità di svolgere, in relazione all’età e alle possibilità, diversificate attività e mansioni. In tutto ciò alcune dimensioni psicologiche (il riconoscere di avere degli scopi, il senso di appartenenza, il constatare di riuscire a mantenere sotto controllo il proprio destino e quello di altre persone significative, ad esempio) e lo sperimentare livelli sufficienti di soddisfazione, sono elementi che concorrono a precisare il livello di benessere di fatto goduto. Si tratta di uno «stato» che, in ogni caso, non può essere considerato raggiunto una volta per tutte, né essere analizzato in termini dicotomici di presenza o assenza: sarebbe più corretto, invece, ipotizzare per esso un continuum sul quale, ad un estremo, si potrebbe collocare lo stato di patologia e malessere e, all’altro, quello di salute e benessere. La stragrande maggioranza delle situazioni delle persone si situerebbe, in ogni caso, tra questi due estremi proprio perché il loro benessere potrebbe essere sempre incrementabile e mai raggiunto in modo definitivo. Se una persona o un gruppo sono collocabili nei pressi del primo «polo», tanto più sarebbe necessaria l’attivazione di attività di prevenzione in grado di «ridurre» gli effetti delle malattie e dei disagi a differenza di quanto si registi-crebbe nei casi opposti per i quali sarebbe più legittimo ipotizzare l’attivazione di iniziative tese all'aumento del benessere» [Koretz 1991].

Disabilità  e qualità  della vita.

NOTA, LAURA;SORESI, SALVATORE
2007

Abstract

Tra le novità più importanti che attorno alle tematiche delle disabilità sono venute registrandosi in questi ultimi anni una posizione particolarmente rilevante va riconosciuta al dibattito a proposito della qualità della vita (QDV). Si tratta di un concetto importante che sta assumendo persino il ruolo di criterio di legittimazione e validazione degli interventi biomedici, abilitativi e riabilitativi che vengono realizzati dal momento che, con sempre maggior insistenza, si ritiene che lo scopo ultimo di ogni trattamento debba essere quello di far sperimentare alla persona che lo riceve condizioni di vita e livelli di soddisfazione per la propria esistenza decisamente più consistenti di quelli precedentemente esperiti. I tassi di mortalità e di morbilità, che venivano tradizionalmente considerati alla stregua di indicatori di salute, per quanto importanti e utili, sono oggi ritenuti insoddisfacenti per descrivere lo stato di benessere delle persone proprio perché considerano le loro patologie piuttosto che la loro salute. La definizione che di benessere propone l’Organizzazione mondiale della sanità, d’altra parte, si riferisce a uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», e non semplicemente all'assenza di malattia, suggerendo di fatto di considerare la qualità della vita delle persone come una stima particolarmente appropriata e sofisticata degli stessi costrutti di benessere e salute. Il concetto di fornisce così un interessante contributo per la precisazione del peso che possono avere le malattie, le menomazioni, le disabilità, le restrizioni che si possono registrare nelle attività che le persone svolgono nei loro livelli di partecipazione, ma anche l’efficacia e la «validità» dei trattamenti e delle cure che vengono poste in essere. Parlando di benessere si devono infatti considerare, come suggerisce anche Cowen [1994], accanto all’assenza di malattie e alla soddisfazione dei bisogni fondamentali, alcuni aspetti “psicologici” e “relazionali” che tradizionalmente non venivano presi in considerazione parlando semplicemente di «salute». Si pensi, a esempio, all’importanza che deve essere riconosciuta a quanto la persona si sente a proprio agio nell’ambiente familiare e professionale (scuola e lavoro), al grado di soddisfazione sperimentato nel corso delle proprie relazioni interpersonali, possibilità di svolgere, in relazione all’età e alle possibilità, diversificate attività e mansioni. In tutto ciò alcune dimensioni psicologiche (il riconoscere di avere degli scopi, il senso di appartenenza, il constatare di riuscire a mantenere sotto controllo il proprio destino e quello di altre persone significative, ad esempio) e lo sperimentare livelli sufficienti di soddisfazione, sono elementi che concorrono a precisare il livello di benessere di fatto goduto. Si tratta di uno «stato» che, in ogni caso, non può essere considerato raggiunto una volta per tutte, né essere analizzato in termini dicotomici di presenza o assenza: sarebbe più corretto, invece, ipotizzare per esso un continuum sul quale, ad un estremo, si potrebbe collocare lo stato di patologia e malessere e, all’altro, quello di salute e benessere. La stragrande maggioranza delle situazioni delle persone si situerebbe, in ogni caso, tra questi due estremi proprio perché il loro benessere potrebbe essere sempre incrementabile e mai raggiunto in modo definitivo. Se una persona o un gruppo sono collocabili nei pressi del primo «polo», tanto più sarebbe necessaria l’attivazione di attività di prevenzione in grado di «ridurre» gli effetti delle malattie e dei disagi a differenza di quanto si registi-crebbe nei casi opposti per i quali sarebbe più legittimo ipotizzare l’attivazione di iniziative tese all'aumento del benessere» [Koretz 1991].
2007
Psicologia delle disabilità
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