Dogmatica giuridica e critica del diritto sono due modelli di scienza giuridica radicalmente opposti che condividono solamente l’oggetto di cui pretendono di ottenere la conoscenza. Al di fuori del complesso di norme mantenute in vigore dallo Stato, che possono essere intese come l’oggetto su cui ricade l’attività conoscitiva, i loro obiettivi e i loro metodi sono in linea di principio totalmente differenti. Mentre la dogmatica persegue il fine di conoscere il diritto nel modo migliore e più certo possibile per applicarlo in un modo oggettivo e prevedibile, la critica del diritto si propone la sua riforma col fine di renderlo più adeguato e accettabile. Mentre la dogmatica ricorre a metodi e tecniche argomentative tradizionalmente proposti e impiegati nell’ambito della scienza ermeneutica per giungere alla comprensione del senso delle norme e alla delimitazione del loro ambito, la critica del diritto, al contrario, cerca di scoprire le origini e le funzioni sociali delle norme al di là di quello che esse stesse dicono, e procede apertamente alla loro valutazione una volta svelato il loro rapporto con l’ambito sociale dal quale sorgono e nel quale operano . Metodi e tecniche con cui la critica perviene alle sue conclusioni comprendono anche, insieme al ragionamento oggettivante, una critica tendente a screditare l’opera del legislatore con maggiore o minore ampiezza ed intensità. La critica del diritto si presenta come scienza giuridica perché tenta di comprendere e spiegare il diritto, spingendosi però più in là di ciò che costituisce una attività conoscitiva in senso stretto; essa infatti include una presa di posizione assiologica, la quale necessita di una giustificazione che non può trarsi dall’oggetto stesso. Fra dogmatica giuridica e critica del diritto vi è una distanza che ai giudici sembra incolmabile. Ma possono i giudici criticare il diritto nel contesto della loro funzione giurisdizionale? Per una personalità educata nella cultura dello stato di diritto, ossia nel principio di legalità, della separazione dei poteri e della sottomissione dei giudici alla legge, la risposta pare ovvia. Come potrebbero i giudici screditare il diritto che sono obbligati ad applicare? Nello stato di diritto i giudici non sono più che mediatori tra il legislatore e il cittadino. Non parlano con voce propria, non agiscono in modo autonomo, né decidono in nome di una giustizia della quale essi sarebbero gli interpreti autorizzati. La legge e le altre fonti convenzionalmente stabilite si impongono ad essi come dogmi, e la loro missione professionale li obbliga ad agire come portavoce di un messaggio originato altrove, ossia nella sede in cui legittimamente risiede la potestà di prendere decisioni giuridiche di portata generale in rappresentazione della sovranità popolare. La critica è pertanto qualcosa che si situa al di fuori della pratica della giurisdizione. Il giudice tradirebbe la propria missione se invece di sottomettersi e difendere la legalità vigente nel quadro stabilito dalla Costituzione la ponesse in discussione in nome di una legalità distinta. Naturalmente, dire «nel quadro stabilito dalla Costituzione» è importante perché il principio di gerarchia normativa permette ai giudici, questo sì, di mettere in discussione e respingere come invalide quelle norme che contraddicano altre di rango superiore, e siccome la Costituzione è la norma suprema essa è quella che stabilisce il limite di legalità vigente. Quello appena esposto è un punto di vista vicino al senso comune della cultura giuridica moderna, e sarebbe perciò insensato smentirlo. Ma conviene cercare di vedere le sfumature che pur vi sono, perché è anche ovvio che non tutti tracciano i limiti della attività giurisdizionale nel medesimo punto: anche accettando il dogma della sommissione del giudice alla legge, si deve ammettere che non tutti i giudici esercitano la funzione di giudicare fedelmente soggetti alle leggi, realizzando nella stessa maniera il compito di interpretarle. Perciò, se si esclude e vieta la critica nell’esercizio della giurisdizione ha parimenti l’obbligo di precisare il concetto di critica, e di chiarire quali sono i presupposti e le caratteristiche dell’attività consistente nell’interpretare ed applicare il diritto, specialmente nel quadro dello stato costituzionale di diritto. E può essere che questo chiarimento permetta di parlare di una qualche critica giudiziale del diritto, ossia che permetta di sostenere la tesi per cui il giudice non è “acriticamente” subordinato al legislatore. Questo chiarimento, e la conseguente difesa di una modalità di critica giudiziale è ciò che tenta di fare questo lavoro.

Il giudice fra dogmatica giuridica e critica del diritto

GEROTTO, SERGIO
2002

Abstract

Dogmatica giuridica e critica del diritto sono due modelli di scienza giuridica radicalmente opposti che condividono solamente l’oggetto di cui pretendono di ottenere la conoscenza. Al di fuori del complesso di norme mantenute in vigore dallo Stato, che possono essere intese come l’oggetto su cui ricade l’attività conoscitiva, i loro obiettivi e i loro metodi sono in linea di principio totalmente differenti. Mentre la dogmatica persegue il fine di conoscere il diritto nel modo migliore e più certo possibile per applicarlo in un modo oggettivo e prevedibile, la critica del diritto si propone la sua riforma col fine di renderlo più adeguato e accettabile. Mentre la dogmatica ricorre a metodi e tecniche argomentative tradizionalmente proposti e impiegati nell’ambito della scienza ermeneutica per giungere alla comprensione del senso delle norme e alla delimitazione del loro ambito, la critica del diritto, al contrario, cerca di scoprire le origini e le funzioni sociali delle norme al di là di quello che esse stesse dicono, e procede apertamente alla loro valutazione una volta svelato il loro rapporto con l’ambito sociale dal quale sorgono e nel quale operano . Metodi e tecniche con cui la critica perviene alle sue conclusioni comprendono anche, insieme al ragionamento oggettivante, una critica tendente a screditare l’opera del legislatore con maggiore o minore ampiezza ed intensità. La critica del diritto si presenta come scienza giuridica perché tenta di comprendere e spiegare il diritto, spingendosi però più in là di ciò che costituisce una attività conoscitiva in senso stretto; essa infatti include una presa di posizione assiologica, la quale necessita di una giustificazione che non può trarsi dall’oggetto stesso. Fra dogmatica giuridica e critica del diritto vi è una distanza che ai giudici sembra incolmabile. Ma possono i giudici criticare il diritto nel contesto della loro funzione giurisdizionale? Per una personalità educata nella cultura dello stato di diritto, ossia nel principio di legalità, della separazione dei poteri e della sottomissione dei giudici alla legge, la risposta pare ovvia. Come potrebbero i giudici screditare il diritto che sono obbligati ad applicare? Nello stato di diritto i giudici non sono più che mediatori tra il legislatore e il cittadino. Non parlano con voce propria, non agiscono in modo autonomo, né decidono in nome di una giustizia della quale essi sarebbero gli interpreti autorizzati. La legge e le altre fonti convenzionalmente stabilite si impongono ad essi come dogmi, e la loro missione professionale li obbliga ad agire come portavoce di un messaggio originato altrove, ossia nella sede in cui legittimamente risiede la potestà di prendere decisioni giuridiche di portata generale in rappresentazione della sovranità popolare. La critica è pertanto qualcosa che si situa al di fuori della pratica della giurisdizione. Il giudice tradirebbe la propria missione se invece di sottomettersi e difendere la legalità vigente nel quadro stabilito dalla Costituzione la ponesse in discussione in nome di una legalità distinta. Naturalmente, dire «nel quadro stabilito dalla Costituzione» è importante perché il principio di gerarchia normativa permette ai giudici, questo sì, di mettere in discussione e respingere come invalide quelle norme che contraddicano altre di rango superiore, e siccome la Costituzione è la norma suprema essa è quella che stabilisce il limite di legalità vigente. Quello appena esposto è un punto di vista vicino al senso comune della cultura giuridica moderna, e sarebbe perciò insensato smentirlo. Ma conviene cercare di vedere le sfumature che pur vi sono, perché è anche ovvio che non tutti tracciano i limiti della attività giurisdizionale nel medesimo punto: anche accettando il dogma della sommissione del giudice alla legge, si deve ammettere che non tutti i giudici esercitano la funzione di giudicare fedelmente soggetti alle leggi, realizzando nella stessa maniera il compito di interpretarle. Perciò, se si esclude e vieta la critica nell’esercizio della giurisdizione ha parimenti l’obbligo di precisare il concetto di critica, e di chiarire quali sono i presupposti e le caratteristiche dell’attività consistente nell’interpretare ed applicare il diritto, specialmente nel quadro dello stato costituzionale di diritto. E può essere che questo chiarimento permetta di parlare di una qualche critica giudiziale del diritto, ossia che permetta di sostenere la tesi per cui il giudice non è “acriticamente” subordinato al legislatore. Questo chiarimento, e la conseguente difesa di una modalità di critica giudiziale è ciò che tenta di fare questo lavoro.
2002
Ars Interpretandi
9788813227678
File in questo prodotto:
Non ci sono file associati a questo prodotto.
Pubblicazioni consigliate

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/2507498
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
  • ???jsp.display-item.citation.isi??? ND
social impact