Nel volume sono indagate le radici dell’espressione latina utilitas publica attraverso la disamina di testi giuridici, filosofici e letterari, dai poemi omerici ai testi romani di età anteseveriana: dedicato all’emersione del concetto nel pensiero greco e romano, l’indagine – in cui si sostanzia il primo dei due tomi dedicati all’argomento – si apre con la considerazione dei brani iliadici, nei quali l’autore individua indizi idonei a delineare una primordiale impostazione del rapporto esistente tra l’idea di ‘giusto’ e quella di ‘utile’ nella sfera pubblica. In linea con la posizione omerica appare il contributo argomentativo recato da Esiodo il quale, tuttavia, allude all’imparzialità come precetto vivificatore di giustizia e ravvisa nel nomos la parte di perfezione divina distribuita ‘per assegnazione’ agli uomini. L’importanza di tali riflessioni si sarebbe inverata nel sostrato ideologico delle posteriori riforme soloniche, evocanti l’eunomia, intesa come ordine e appropriatezza mentre, nel mutato panorama della polis ateniese, il discorso pubblico vertente su utilità e giustizia appare fortemente condizionato dall’affermazione graduale delle leggi (nomoi): le controverse implicazioni di tale fase storica emergono nitidamente nell’opera dei tragediografi e dei sofisti, i quali enucleano speculativamente il concetto di utilità, ricostruibile nella Repubblica platonica attraverso le parole di Trasimaco (secondo cui il giusto coinciderebbe con l’utile del più forte) e trasposto nei rapporti internazionali da Tucidide. La destrutturazione socratica delle posizioni ‘realiste’, condotta sul versante metodologico, appresta l’orizzonte di pensiero ascrivibile a Platone, fautore della marginalità delle leggi nello stato ideale, ovvero costruito per la realizzazione del bene comune: al contrario, l’analisi aristotelica prende le mosse dagli assetti costituzionali esistenti facendone dipendere il corretto funzionamento dalla sovranità impersonale dei nomoi, nonché dall’intreccio di interessi particolari e generali proprio di ciascuna forme di governo. Infine, se nella riflessione dei filosofi epicurei e stoici l’analisi richiama una mistione delle precedenti meditazioni, accomunata tuttavia dal distaccato atteggiamento verso la politica, è nei cd. scritti pitagorici che l’idea del monarca assoluto come ‘legge vivente’ raggiunge il suo acme. La riflessione romana in materia di publica utilitas viene delineata come rivisitazione, ragionata e pragmaticamente adeguata alle specifiche esigenze giuridiche e politiche insorte nella fase finale dell’espansione, di precedenti speculazioni greche: all’opera dell’Arpinate viene riconosciuta una sostanziale coerenza, concorrendo giustizia e utilità al conseguimento del bene comune nel rispetto delle virtù integranti l’honestum. Di ciò costituiscono testimonianze gli impieghi ricorrenti di utilitas communis ed utilitas rei publicae, locuzioni di significato contiguo ma non coincidente, la cui alternativa ‘popolare’ trova riscontro nell’idea sallustiana di bonum publicum: nel catalogo presentato in materia dall’Arpinate fa ora capolino l’utilitas publica, alla quale nella tarda Repubblica e durante buona parte del Principato si riconosce un rilievo marginale e privo di autonome connotazioni.

'Utilitas publica'. I. Emersione nel pensiero greco e romano.

SCEVOLA, ROBERTO GIAMPIERO FRANCESCO
2012

Abstract

Nel volume sono indagate le radici dell’espressione latina utilitas publica attraverso la disamina di testi giuridici, filosofici e letterari, dai poemi omerici ai testi romani di età anteseveriana: dedicato all’emersione del concetto nel pensiero greco e romano, l’indagine – in cui si sostanzia il primo dei due tomi dedicati all’argomento – si apre con la considerazione dei brani iliadici, nei quali l’autore individua indizi idonei a delineare una primordiale impostazione del rapporto esistente tra l’idea di ‘giusto’ e quella di ‘utile’ nella sfera pubblica. In linea con la posizione omerica appare il contributo argomentativo recato da Esiodo il quale, tuttavia, allude all’imparzialità come precetto vivificatore di giustizia e ravvisa nel nomos la parte di perfezione divina distribuita ‘per assegnazione’ agli uomini. L’importanza di tali riflessioni si sarebbe inverata nel sostrato ideologico delle posteriori riforme soloniche, evocanti l’eunomia, intesa come ordine e appropriatezza mentre, nel mutato panorama della polis ateniese, il discorso pubblico vertente su utilità e giustizia appare fortemente condizionato dall’affermazione graduale delle leggi (nomoi): le controverse implicazioni di tale fase storica emergono nitidamente nell’opera dei tragediografi e dei sofisti, i quali enucleano speculativamente il concetto di utilità, ricostruibile nella Repubblica platonica attraverso le parole di Trasimaco (secondo cui il giusto coinciderebbe con l’utile del più forte) e trasposto nei rapporti internazionali da Tucidide. La destrutturazione socratica delle posizioni ‘realiste’, condotta sul versante metodologico, appresta l’orizzonte di pensiero ascrivibile a Platone, fautore della marginalità delle leggi nello stato ideale, ovvero costruito per la realizzazione del bene comune: al contrario, l’analisi aristotelica prende le mosse dagli assetti costituzionali esistenti facendone dipendere il corretto funzionamento dalla sovranità impersonale dei nomoi, nonché dall’intreccio di interessi particolari e generali proprio di ciascuna forme di governo. Infine, se nella riflessione dei filosofi epicurei e stoici l’analisi richiama una mistione delle precedenti meditazioni, accomunata tuttavia dal distaccato atteggiamento verso la politica, è nei cd. scritti pitagorici che l’idea del monarca assoluto come ‘legge vivente’ raggiunge il suo acme. La riflessione romana in materia di publica utilitas viene delineata come rivisitazione, ragionata e pragmaticamente adeguata alle specifiche esigenze giuridiche e politiche insorte nella fase finale dell’espansione, di precedenti speculazioni greche: all’opera dell’Arpinate viene riconosciuta una sostanziale coerenza, concorrendo giustizia e utilità al conseguimento del bene comune nel rispetto delle virtù integranti l’honestum. Di ciò costituiscono testimonianze gli impieghi ricorrenti di utilitas communis ed utilitas rei publicae, locuzioni di significato contiguo ma non coincidente, la cui alternativa ‘popolare’ trova riscontro nell’idea sallustiana di bonum publicum: nel catalogo presentato in materia dall’Arpinate fa ora capolino l’utilitas publica, alla quale nella tarda Repubblica e durante buona parte del Principato si riconosce un rilievo marginale e privo di autonome connotazioni.
2012
9788813314330
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