Il presente contributo parte dal presupposto che con l’espressione Sharing Economy (traducibile in italiano come “economia della condivisione”) si intenda individuare un fenomeno articolato e complesso, di natura socio-economica ancor prima che giuridica, il quale, pur sembrando scontare ampi margini di incertezze definitorie – in particolare delineandosi, accanto ad una serie di ipotesi di sharing economy “pura”, numerose ipotesi concrete che presentano un certo grado di contaminazione con le attività economico-produttive e professionali riconducibili al più diffuso modello imprenditoriale – sembra volersi affermare, anche sul piano regolatorio, in un rapporto di alterità rispetto ai meccanismi di scambio tradizionale e, dunque anche rispetto al ruolo di intermediazione negli scambi che in tale tradizionale modello svolge l’“impresa”, la più importante manifestazione della libertà di iniziativa economica, così come oggi delineata dal diritto euronitario e, ancor prima, dal diritto nazionale. Com’è noto, la nozione di “impresa” è oggi in continua espansione, vuoi come nozione unitaria ma “flessibile”, vuoi come nozione plurima, declinata in modo differente a seconda dei contesti regolamentari in cui viene chiamata ad operare. In particolare, sin dall’inizio degli anni Novanta del XX secolo essa ha progressivamente assunto – anche grazie all’influenza esercitata su tale concetto dal diritto europeo – un carattere oggettivo e funzionale, che per lo più prescinde dalle caratteristiche del soggetto, e una portata molto ampia e pregnante, in funzione dell’applicazione uniforme – tanto ai soggetti pubblici, quanto a quelli privati – di un regime normativo assai articolato, inclusivo della normativa antitrust, del divieto di aiuti di Stato, di riconoscimento e presidio delle quattro libertà economiche fondamentali, delle regole sugli appalti pubblici, nonché di regimi dei rapporti pre-contrattuali e contrattuali speciali e spesso in tutto o in parte alternativi tra loro in funzione dei ruoli dei soggetti coinvolti (e, particolare, a seconda che siano o meno coinvolti, oltre al “professionista”, i “consumatori” ovvero le “micro-imprese” o le cosiddette imprese “deboli”) e finanche del regime tributario, con specifico riferimento all’imposta sul valore aggiunto. Nel loro insieme, tali discipline costituiscono il level playing field normativo euronitario che concorre alla creazione e al mantenimento del “mercato interno”, quest’ultimo inteso come un sistema integrato di produzione e di scambio di beni e servizi aperto e concorrenziale, a sua volta finalizzato ad obiettivi di benessere generale, nel quale a tutti i soggetti che sui vari mercati operano, professionisti (imprenditori) e consumatori, sia dato operare con fiducia, sulla base di regole certe e prevedibili, applicate in modo uniforme, non discriminatorio e proporzionato, e per tale via ritenendosi possibile raggiungere, infine, la piena e corretta attuazione dei principi fondamentali dell’Unione Europea. Se, dunque, la logica della Sharing Economy è fondata sull’alternatività (e dunque almeno parziale sostituibilità) del suo modello operativo rispetto a quello che sta alla base del sistema capitalistico, che è – come detto – a sua volta fondato sulla centralità dell’impresa, ed essendo quest’ultima intesa nel sistema tradizionale come elemento imprescindibile di attivazione del mercato, allora diventa necessario anzitutto fissare i confini di tale fenomeno rispetto alle comuni attività imprenditoriali e in particolare di fronte all’utilizzo delle tecnologie informatiche che permettono di riconoscere una potentissima funzione di intermediazione tra domanda e offerta alle cosiddette “piattaforme” (social media, social network, siti dedicati alla ricerca di fornitori di specifiche categorie di prodotti e/o servizi, siti di acquisto o vendita generici, ecc.). Ebbene, se il tratto unificante che tiene insieme la complessità delle esperienze di “scambio tra pari” di beni o servizi che vengono ricondotte al modello della Sharing Economy è – a parte l’impiego delle piattaforme informatiche, che appare elemento di per sé neutrale rispetto al problema qualificatorio, pur nell’indubitabile peculiarità strutturale dello strumento – la sua alterità rispetto all’attività d’impresa, e consistente nel coinvolgere soggetti che, agendo prevalentemente al di fuori del loro ruolo professionale, mettono a disposizione di altri soggetti non professionali i propri beni e/o le proprie competenze (servizi) il cui sfruttamento (e/o accesso) esclusivo sarebbe altrimenti subottimale, e ciò fanno di norma a fronte della possibilità di uso (accesso) ad altri beni o servizi ovvero di un corrispettivo in denaro o in natura, allora, alla luce del riscontro, nella pluralità dei casi noti – Uber, AirB&B, E-Bay, Facebook, PayPal, Vinted, ecc. –, di un’imprescindibile ruolo di intermediazione tra domanda e offerta svolto da soggetti prettamente imprenditoriali – ponendo in essere attività professionale che viene svolta per lo più a titolo oneroso – si ritiene che lo spazio per tale fenomeno (quanto meno nella sua versione “pura”) sia in realtà assai limitato, occupando nicchie ove realmente l’imprenditore non ha interesse ad attivare e/o sostenere con la propria attività un vero e proprio mercato. Pertanto, si rende necessaria l’opera di discernimento tra attività di Sharing Economy genuine (“pure”) e attività “ibride”, utilizzando le categorie invalse prevalentemente nel diritto europeo, non potendosi consentire l’affermazione di piattaforme informatiche che finiscono per competere con operatori professionali tradizionali (imprenditori) in un certo settore economico, rivendicando tuttavia l’esenzione dallo statuto dell’impresa semplicemente operando sotto l’“etichetta” della ShE, e in tal modo aggirando le comuni regole poste a presidio della concorrenza e dell’apertura del mercato, e tradendo così l’affidamento di coloro che, professionisti o meno, vi accedono e vi operano, sull’effettività del level playing field regolamentare che dovrebbe caratterizzare l’ordine giuridico-economico di ciascun mercato rilevante, e dunque anche la parità di trattamento dei (e il connesso divieto di discriminazione tra) soggetti che per l’appunto alimentano, sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta i vari ambiti della produzione e dello scambio. La sensazione, insomma, è quella che con l’esaltazione della sharing economy si intenda dare un nuovo nome a ciò che, grazie alla tecnologia (e ad un’evoluzione dei comportamenti sociali, sollecitati da tale tecnologia), è soltanto un nuovo modo di fare impresa. Piuttosto – e allora in una prospettiva ricostruttiva almeno in parte diversa rispetto all’attuale, prevalente accezione di sharing economy – sembrerebbero più promettenti approcci funzionali alla condivisione di beni e/o servizi della cosiddetta società dell’informazione, implementabili pur sempre utilizzando strumenti contrattuali e istituti capaci di alimentare una gestione almeno parzialmente condivisa dei diritti IP che su quei beni o servizi spesso possono insistere, quali, ad esempio, la possibilità di utilizzo della opere dell’ingegno e dei dati altrui, nel rispetto dei diritti morali e/o dei limiti eventualmente imposti dai rispettivi autori, mediante licenze open source e open data che consentano elaborazioni creative e invenzioni derivate nonché – sul piano della contaminazione delle conoscenze e della cross-fertilization delle idee suscettibili di appropriazione mediante brevettazione e/o altri diritti IP – al fenomeno dell’open innovation e dell’open science.
Sharing economy e diritto dell’impresa e del mercato: una convivenza difficile
Maurizio Bianchini
2022
Abstract
Il presente contributo parte dal presupposto che con l’espressione Sharing Economy (traducibile in italiano come “economia della condivisione”) si intenda individuare un fenomeno articolato e complesso, di natura socio-economica ancor prima che giuridica, il quale, pur sembrando scontare ampi margini di incertezze definitorie – in particolare delineandosi, accanto ad una serie di ipotesi di sharing economy “pura”, numerose ipotesi concrete che presentano un certo grado di contaminazione con le attività economico-produttive e professionali riconducibili al più diffuso modello imprenditoriale – sembra volersi affermare, anche sul piano regolatorio, in un rapporto di alterità rispetto ai meccanismi di scambio tradizionale e, dunque anche rispetto al ruolo di intermediazione negli scambi che in tale tradizionale modello svolge l’“impresa”, la più importante manifestazione della libertà di iniziativa economica, così come oggi delineata dal diritto euronitario e, ancor prima, dal diritto nazionale. Com’è noto, la nozione di “impresa” è oggi in continua espansione, vuoi come nozione unitaria ma “flessibile”, vuoi come nozione plurima, declinata in modo differente a seconda dei contesti regolamentari in cui viene chiamata ad operare. In particolare, sin dall’inizio degli anni Novanta del XX secolo essa ha progressivamente assunto – anche grazie all’influenza esercitata su tale concetto dal diritto europeo – un carattere oggettivo e funzionale, che per lo più prescinde dalle caratteristiche del soggetto, e una portata molto ampia e pregnante, in funzione dell’applicazione uniforme – tanto ai soggetti pubblici, quanto a quelli privati – di un regime normativo assai articolato, inclusivo della normativa antitrust, del divieto di aiuti di Stato, di riconoscimento e presidio delle quattro libertà economiche fondamentali, delle regole sugli appalti pubblici, nonché di regimi dei rapporti pre-contrattuali e contrattuali speciali e spesso in tutto o in parte alternativi tra loro in funzione dei ruoli dei soggetti coinvolti (e, particolare, a seconda che siano o meno coinvolti, oltre al “professionista”, i “consumatori” ovvero le “micro-imprese” o le cosiddette imprese “deboli”) e finanche del regime tributario, con specifico riferimento all’imposta sul valore aggiunto. Nel loro insieme, tali discipline costituiscono il level playing field normativo euronitario che concorre alla creazione e al mantenimento del “mercato interno”, quest’ultimo inteso come un sistema integrato di produzione e di scambio di beni e servizi aperto e concorrenziale, a sua volta finalizzato ad obiettivi di benessere generale, nel quale a tutti i soggetti che sui vari mercati operano, professionisti (imprenditori) e consumatori, sia dato operare con fiducia, sulla base di regole certe e prevedibili, applicate in modo uniforme, non discriminatorio e proporzionato, e per tale via ritenendosi possibile raggiungere, infine, la piena e corretta attuazione dei principi fondamentali dell’Unione Europea. Se, dunque, la logica della Sharing Economy è fondata sull’alternatività (e dunque almeno parziale sostituibilità) del suo modello operativo rispetto a quello che sta alla base del sistema capitalistico, che è – come detto – a sua volta fondato sulla centralità dell’impresa, ed essendo quest’ultima intesa nel sistema tradizionale come elemento imprescindibile di attivazione del mercato, allora diventa necessario anzitutto fissare i confini di tale fenomeno rispetto alle comuni attività imprenditoriali e in particolare di fronte all’utilizzo delle tecnologie informatiche che permettono di riconoscere una potentissima funzione di intermediazione tra domanda e offerta alle cosiddette “piattaforme” (social media, social network, siti dedicati alla ricerca di fornitori di specifiche categorie di prodotti e/o servizi, siti di acquisto o vendita generici, ecc.). Ebbene, se il tratto unificante che tiene insieme la complessità delle esperienze di “scambio tra pari” di beni o servizi che vengono ricondotte al modello della Sharing Economy è – a parte l’impiego delle piattaforme informatiche, che appare elemento di per sé neutrale rispetto al problema qualificatorio, pur nell’indubitabile peculiarità strutturale dello strumento – la sua alterità rispetto all’attività d’impresa, e consistente nel coinvolgere soggetti che, agendo prevalentemente al di fuori del loro ruolo professionale, mettono a disposizione di altri soggetti non professionali i propri beni e/o le proprie competenze (servizi) il cui sfruttamento (e/o accesso) esclusivo sarebbe altrimenti subottimale, e ciò fanno di norma a fronte della possibilità di uso (accesso) ad altri beni o servizi ovvero di un corrispettivo in denaro o in natura, allora, alla luce del riscontro, nella pluralità dei casi noti – Uber, AirB&B, E-Bay, Facebook, PayPal, Vinted, ecc. –, di un’imprescindibile ruolo di intermediazione tra domanda e offerta svolto da soggetti prettamente imprenditoriali – ponendo in essere attività professionale che viene svolta per lo più a titolo oneroso – si ritiene che lo spazio per tale fenomeno (quanto meno nella sua versione “pura”) sia in realtà assai limitato, occupando nicchie ove realmente l’imprenditore non ha interesse ad attivare e/o sostenere con la propria attività un vero e proprio mercato. Pertanto, si rende necessaria l’opera di discernimento tra attività di Sharing Economy genuine (“pure”) e attività “ibride”, utilizzando le categorie invalse prevalentemente nel diritto europeo, non potendosi consentire l’affermazione di piattaforme informatiche che finiscono per competere con operatori professionali tradizionali (imprenditori) in un certo settore economico, rivendicando tuttavia l’esenzione dallo statuto dell’impresa semplicemente operando sotto l’“etichetta” della ShE, e in tal modo aggirando le comuni regole poste a presidio della concorrenza e dell’apertura del mercato, e tradendo così l’affidamento di coloro che, professionisti o meno, vi accedono e vi operano, sull’effettività del level playing field regolamentare che dovrebbe caratterizzare l’ordine giuridico-economico di ciascun mercato rilevante, e dunque anche la parità di trattamento dei (e il connesso divieto di discriminazione tra) soggetti che per l’appunto alimentano, sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta i vari ambiti della produzione e dello scambio. La sensazione, insomma, è quella che con l’esaltazione della sharing economy si intenda dare un nuovo nome a ciò che, grazie alla tecnologia (e ad un’evoluzione dei comportamenti sociali, sollecitati da tale tecnologia), è soltanto un nuovo modo di fare impresa. Piuttosto – e allora in una prospettiva ricostruttiva almeno in parte diversa rispetto all’attuale, prevalente accezione di sharing economy – sembrerebbero più promettenti approcci funzionali alla condivisione di beni e/o servizi della cosiddetta società dell’informazione, implementabili pur sempre utilizzando strumenti contrattuali e istituti capaci di alimentare una gestione almeno parzialmente condivisa dei diritti IP che su quei beni o servizi spesso possono insistere, quali, ad esempio, la possibilità di utilizzo della opere dell’ingegno e dei dati altrui, nel rispetto dei diritti morali e/o dei limiti eventualmente imposti dai rispettivi autori, mediante licenze open source e open data che consentano elaborazioni creative e invenzioni derivate nonché – sul piano della contaminazione delle conoscenze e della cross-fertilization delle idee suscettibili di appropriazione mediante brevettazione e/o altri diritti IP – al fenomeno dell’open innovation e dell’open science.File | Dimensione | Formato | |
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