Grazie ai recenti interventi di pulitura e restauro dell'affresco del Congedo di Cristo da Maria nella cappella della Madonna Mora, si è potuto leggere gran parte della lunga iscrizione in volgare dipinta in lettere gotiche, in origine dorate, nella parte superiore della scena, che per i precedenti interpreti dell'opera era indecifrabile o al massimo leggibile solo per singole parole o brevi sequenze isolate, spesso lette o ricostruite in modo errato e risultate percioÁ fuorvianti (e/o fuorviate) anche rispetto all'interpretazione del soggetto raffigurato. Si è così riconosciuto trattarsi di un testo in prosa - linguisticamente riconducibile all'italoromanzo settentrionale, con pochi latinismi formali e solo leggermente connotato da tratti tipicamente veneti - che in sedici righe racchiude un presunto dialogo in tre battute tra Cristo e la madre al momento del loro commiato precedente alla Passione, in cui è centrale la certezza della risurrezione finale, tema ben consono a un affresco di riconosciuta destinazione funeraria. L'episodio, assente dai vangeli sia canonici che apocrifi, è variamente narrato dalle Meditazioni sulla vita di Cristo, opera devozionale di inizio Trecento attribuita a uno ``pseudo-Bonaventura'', e dai componimenti letterari in parte derivatine, quali il cantare della Passione di Cristo, composto nel 1364 dal senese Niccolò Cicerchia e assai diffuso in tutta la penisola, e la Devotione de Zobiadì sancto, una lunga composizione drammatica d'origine umbra (ma linguisticamente venetizzata nell'unico testimone manoscritto pervenutoci, datato 1375), destinata a essere rappresentata nelle chiese inframezzando la predicazione della settimana santa. Proprio con tali opere il testo dell'iscrizione presenta forti punti di contatto semantico, lessicale e sintagmatico, unendo così elementi propri della letteratura edificante con altri tratti dalle laude drammatiche legate alla ritualità collettiva delle confraternite penitenti e destinate ad affiancare la predicazione pubblica: ciò suggerisce che il suo ignoto autore, probabile ``consulente teologico'' dei committenti del dipinto, fosse un frate a contatto sia col mondo confraternale che con forme culturali e devozionali di livello un po' piuÁ elevato, quali potevano essere espresse da una congregazione di terziari francescani come quella attiva al Santo già prima del 1245 (e almeno dal 1322 aperta alla partecipazione femminile), a cui poteva forse appartenere anche la coppia di committenti rappresentati nell'affresco.

[Il "Congedo di Cristo dalla Madre" affrescato da Giusto de' Menabuoi nella cappella della Madonna Mora al Santo e la sua iscrizione] L'iscrizione dialogata

Franco Benucci
2019

Abstract

Grazie ai recenti interventi di pulitura e restauro dell'affresco del Congedo di Cristo da Maria nella cappella della Madonna Mora, si è potuto leggere gran parte della lunga iscrizione in volgare dipinta in lettere gotiche, in origine dorate, nella parte superiore della scena, che per i precedenti interpreti dell'opera era indecifrabile o al massimo leggibile solo per singole parole o brevi sequenze isolate, spesso lette o ricostruite in modo errato e risultate percioÁ fuorvianti (e/o fuorviate) anche rispetto all'interpretazione del soggetto raffigurato. Si è così riconosciuto trattarsi di un testo in prosa - linguisticamente riconducibile all'italoromanzo settentrionale, con pochi latinismi formali e solo leggermente connotato da tratti tipicamente veneti - che in sedici righe racchiude un presunto dialogo in tre battute tra Cristo e la madre al momento del loro commiato precedente alla Passione, in cui è centrale la certezza della risurrezione finale, tema ben consono a un affresco di riconosciuta destinazione funeraria. L'episodio, assente dai vangeli sia canonici che apocrifi, è variamente narrato dalle Meditazioni sulla vita di Cristo, opera devozionale di inizio Trecento attribuita a uno ``pseudo-Bonaventura'', e dai componimenti letterari in parte derivatine, quali il cantare della Passione di Cristo, composto nel 1364 dal senese Niccolò Cicerchia e assai diffuso in tutta la penisola, e la Devotione de Zobiadì sancto, una lunga composizione drammatica d'origine umbra (ma linguisticamente venetizzata nell'unico testimone manoscritto pervenutoci, datato 1375), destinata a essere rappresentata nelle chiese inframezzando la predicazione della settimana santa. Proprio con tali opere il testo dell'iscrizione presenta forti punti di contatto semantico, lessicale e sintagmatico, unendo così elementi propri della letteratura edificante con altri tratti dalle laude drammatiche legate alla ritualità collettiva delle confraternite penitenti e destinate ad affiancare la predicazione pubblica: ciò suggerisce che il suo ignoto autore, probabile ``consulente teologico'' dei committenti del dipinto, fosse un frate a contatto sia col mondo confraternale che con forme culturali e devozionali di livello un po' piuÁ elevato, quali potevano essere espresse da una congregazione di terziari francescani come quella attiva al Santo già prima del 1245 (e almeno dal 1322 aperta alla partecipazione femminile), a cui poteva forse appartenere anche la coppia di committenti rappresentati nell'affresco.
2019
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11577/3303829
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