Il contributo si inserisce nella riflessione contemporanea sulla nozione di paesaggio, oggetto di un profondo ripensamento sintetizzabile negli assunti della Convenzione Europea (2000), che ne sottrae la definizione al “bello” pittorico mettendo al centro l’attribuzione di valore da parte degli abitanti. L’impiego della categoria di paesaggio sottintende il coinvolgimento di un soggetto che guarda, o interagisce, con una porzione di territorio, chiamando in causa implicazioni percettive e affettive, nonché la collocazione in una dimensione estetico-culturale intrisa di memoria. Tale soggetto non viene più inteso unicamente quale spettatore ma quale attore in prima persona, operando uno slittamento che invita a interrogarsi, trascendendo il paradigma rappresentazionale, su come gli audiovisivi stessi agiscano sul paesaggio, costruendolo e definendo i modi di abitarlo. In quest’ottica si rilegge la produzione di una delle cineaste e artiste visive che maggiormente hanno lavorato sul paesaggio, articolando tre differenti prospettive di analisi finalizzate a esplorare tanto il ruolo che il paesaggio assume nelle opere di Agnès Varda, quanto quello che le sue opere assumono nel paesaggio. Nella prima sezione si indaga la creazione di «paesaggi d’autrice» in un corpus nel quale fotografie, film, installazioni, volumi ritornano a distanza di anni nei medesimi luoghi, intessendo un complesso reticolo intertestuale e transmediale che partecipa alla configurazione progressiva di paesaggi carichi di valenze soggettive. Il caso di studio selezionato è quello del paesaggio insulare di Noirmoutier, per le sue valenze autobiografiche ma anche perché consente di focalizzarsi su lavori lontani per epoca di realizzazione e per linguaggio espressivo: l’esposizione L’Île et Elle alla Fondation Cartier di Parigi (2006) e il lungometraggio più ignorato nella filmografia della regista, l’irrisolto Le creature (1965). Nella seconda sezione si affronta la riflessione di Varda sul paesaggio in quanto dispositivo, condotta attraverso l’interrogazione e la decostruzione dei depositi culturali che hanno contribuito a condensare alcuni paesaggi nella dimensione del cliché. Ci si sofferma innanzitutto sul cortometraggio Du côté de la côte (1958) e sul volume “gemello” La côte d’Azur (1961), sinora trascurato negli studi sul film. I due lavori ricostruiscono congiuntamente l’apporto di una pluralità di fonti (testi letterari, dipinti, pellicole, canzoni, manifesti pubblicitari) nel definire l’immaginario della Costa Azzurra. Segue un’analisi del lungometraggio Il verde prato dell’amore (1964) che si avvale anche di chiavi interpretative suggerite dalla recente installazione UNE CABANE DE CINEMA: la serre du Bonheur (2018). Per la prima volta, Il verde prato dell’amore viene esaminato in rapporto alla configurazione della periferia parigina nel panorama mediale di quegli anni. Il consolidato immaginario dell’Île-de-France come meta di scampagnate, elaborato in ambito letterario e pittorico, viene scandagliato nel film attraverso esibiti riferimenti ai dipinti impressionisti. Tale paesaggio rivela però il suo funzionamento di dispositivo che orienta lo sguardo dei protagonisti e dello spettatore sull’ambiente: a sprazzi emergono dal fuoricampo i segni dei mutamenti che la banlieue sta conoscendo, con la costruzione dei famosi grands ensembles. Nella terza e ultima sezione si evidenzia il contributo del cinema nel riconoscimento e nella creazione di paesaggi, non solo attraverso il racconto di territori inediti, spesso scoperti casualmente, ma anche attraverso una vera e propria azione politica di aggregazione di comunità. In questa chiave si prendono in considerazione più film, da Les glaneurs et la glaneuse (2000) all’emblematico Visages Villages realizzato in co-regia con JR nel 2017. In quest’ultimo l’azione del cinema sui paesaggi si fa più apertamente performativa, promuovendone il riconoscimento da parte di coloro che li vivono.
Tre prospettive sul paesaggio nell'opera di Agnès Varda
Giulia Lavarone
2021
Abstract
Il contributo si inserisce nella riflessione contemporanea sulla nozione di paesaggio, oggetto di un profondo ripensamento sintetizzabile negli assunti della Convenzione Europea (2000), che ne sottrae la definizione al “bello” pittorico mettendo al centro l’attribuzione di valore da parte degli abitanti. L’impiego della categoria di paesaggio sottintende il coinvolgimento di un soggetto che guarda, o interagisce, con una porzione di territorio, chiamando in causa implicazioni percettive e affettive, nonché la collocazione in una dimensione estetico-culturale intrisa di memoria. Tale soggetto non viene più inteso unicamente quale spettatore ma quale attore in prima persona, operando uno slittamento che invita a interrogarsi, trascendendo il paradigma rappresentazionale, su come gli audiovisivi stessi agiscano sul paesaggio, costruendolo e definendo i modi di abitarlo. In quest’ottica si rilegge la produzione di una delle cineaste e artiste visive che maggiormente hanno lavorato sul paesaggio, articolando tre differenti prospettive di analisi finalizzate a esplorare tanto il ruolo che il paesaggio assume nelle opere di Agnès Varda, quanto quello che le sue opere assumono nel paesaggio. Nella prima sezione si indaga la creazione di «paesaggi d’autrice» in un corpus nel quale fotografie, film, installazioni, volumi ritornano a distanza di anni nei medesimi luoghi, intessendo un complesso reticolo intertestuale e transmediale che partecipa alla configurazione progressiva di paesaggi carichi di valenze soggettive. Il caso di studio selezionato è quello del paesaggio insulare di Noirmoutier, per le sue valenze autobiografiche ma anche perché consente di focalizzarsi su lavori lontani per epoca di realizzazione e per linguaggio espressivo: l’esposizione L’Île et Elle alla Fondation Cartier di Parigi (2006) e il lungometraggio più ignorato nella filmografia della regista, l’irrisolto Le creature (1965). Nella seconda sezione si affronta la riflessione di Varda sul paesaggio in quanto dispositivo, condotta attraverso l’interrogazione e la decostruzione dei depositi culturali che hanno contribuito a condensare alcuni paesaggi nella dimensione del cliché. Ci si sofferma innanzitutto sul cortometraggio Du côté de la côte (1958) e sul volume “gemello” La côte d’Azur (1961), sinora trascurato negli studi sul film. I due lavori ricostruiscono congiuntamente l’apporto di una pluralità di fonti (testi letterari, dipinti, pellicole, canzoni, manifesti pubblicitari) nel definire l’immaginario della Costa Azzurra. Segue un’analisi del lungometraggio Il verde prato dell’amore (1964) che si avvale anche di chiavi interpretative suggerite dalla recente installazione UNE CABANE DE CINEMA: la serre du Bonheur (2018). Per la prima volta, Il verde prato dell’amore viene esaminato in rapporto alla configurazione della periferia parigina nel panorama mediale di quegli anni. Il consolidato immaginario dell’Île-de-France come meta di scampagnate, elaborato in ambito letterario e pittorico, viene scandagliato nel film attraverso esibiti riferimenti ai dipinti impressionisti. Tale paesaggio rivela però il suo funzionamento di dispositivo che orienta lo sguardo dei protagonisti e dello spettatore sull’ambiente: a sprazzi emergono dal fuoricampo i segni dei mutamenti che la banlieue sta conoscendo, con la costruzione dei famosi grands ensembles. Nella terza e ultima sezione si evidenzia il contributo del cinema nel riconoscimento e nella creazione di paesaggi, non solo attraverso il racconto di territori inediti, spesso scoperti casualmente, ma anche attraverso una vera e propria azione politica di aggregazione di comunità. In questa chiave si prendono in considerazione più film, da Les glaneurs et la glaneuse (2000) all’emblematico Visages Villages realizzato in co-regia con JR nel 2017. In quest’ultimo l’azione del cinema sui paesaggi si fa più apertamente performativa, promuovendone il riconoscimento da parte di coloro che li vivono.File | Dimensione | Formato | |
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