Ideato congiuntamente da Farah Polato e Rosamaria Salvatore e comprensivo di due sezioni, rispettivamente a cura di R. Salvatore (pp. 105-112, Macbeth, o l’atto di parola) e F. Polato (113-125, L'arsenale delle apparizioni, o del teatro-cinema), il contributo interroga il rapporto tra cinema e teatro nella produzione filmica di Marco Bellocchio a partire da due punti di affaccio volti a sondare la messa in scena della parola e dello spazio, storicamente individuati come terreno distintivo tra i due ambiti espressivi e le rispettive prassi. Se nel cinema di Marco Bellocchio l'interazione trascorre da declinazioni più esplicite – come l’adattamento e la citazione – al confronto con procedimenti compositivi, pratiche e consuetudini, a risultare fertile nella produzione di senso è la sensazione degli sconfinamenti, più che l’individuazione della loro meccanica, nel vorticoso confermare e sfidare di ognuna delle due forme espressive i modi del proprio riconoscimento. A partire da esempi rappresentativi di procedimenti caratterizzanti, Salvatore converge sull'analisi di "Sorelle Mai" (2010) e "Bella Addormentata" (2012), concentrandosi sulla citazione di brani tratti da drammi teatrali stratificati nelle memorie collettive per evidenziare come la loro messa in scena nei testi filmici schiuda per i personaggi dinamiche di rigenerazione che si snodano tra i diversi regimi dell’esperienza, dal piano fenomenico a quello onirico. Nella seconda, Polato si sofferma sul trattamento dello spazio in "La condanna" (1991). Motivo privilegiato è la trasmutazione di architetture preesistenti in spazi scenici (nello specifico, il museo di Villa Farnese) assonanti con l’idea di teatro evocata dall’arsenale delle apparizioni di Luigi Pirandello, tra gli autori di riferimento di Bellocchio. Tra i diversi elementi e procedimenti convocati, tanto narrativi che formali, a fungere da perno è la dimensione di spazio perimetrato, ostentatamente marcato in alcune sequenze, su cui si incentra il percorso interpretativo suggerito argomentando come il processo si riversi sull'intero corpo filmico, che si fa esso stesso spazio di rivelazione.

La parola, lo spazio:Bellocchio e il teatro

POLATO FARAH
;
SALVATORE ROSAMARIA
2020

Abstract

Ideato congiuntamente da Farah Polato e Rosamaria Salvatore e comprensivo di due sezioni, rispettivamente a cura di R. Salvatore (pp. 105-112, Macbeth, o l’atto di parola) e F. Polato (113-125, L'arsenale delle apparizioni, o del teatro-cinema), il contributo interroga il rapporto tra cinema e teatro nella produzione filmica di Marco Bellocchio a partire da due punti di affaccio volti a sondare la messa in scena della parola e dello spazio, storicamente individuati come terreno distintivo tra i due ambiti espressivi e le rispettive prassi. Se nel cinema di Marco Bellocchio l'interazione trascorre da declinazioni più esplicite – come l’adattamento e la citazione – al confronto con procedimenti compositivi, pratiche e consuetudini, a risultare fertile nella produzione di senso è la sensazione degli sconfinamenti, più che l’individuazione della loro meccanica, nel vorticoso confermare e sfidare di ognuna delle due forme espressive i modi del proprio riconoscimento. A partire da esempi rappresentativi di procedimenti caratterizzanti, Salvatore converge sull'analisi di "Sorelle Mai" (2010) e "Bella Addormentata" (2012), concentrandosi sulla citazione di brani tratti da drammi teatrali stratificati nelle memorie collettive per evidenziare come la loro messa in scena nei testi filmici schiuda per i personaggi dinamiche di rigenerazione che si snodano tra i diversi regimi dell’esperienza, dal piano fenomenico a quello onirico. Nella seconda, Polato si sofferma sul trattamento dello spazio in "La condanna" (1991). Motivo privilegiato è la trasmutazione di architetture preesistenti in spazi scenici (nello specifico, il museo di Villa Farnese) assonanti con l’idea di teatro evocata dall’arsenale delle apparizioni di Luigi Pirandello, tra gli autori di riferimento di Bellocchio. Tra i diversi elementi e procedimenti convocati, tanto narrativi che formali, a fungere da perno è la dimensione di spazio perimetrato, ostentatamente marcato in alcune sequenze, su cui si incentra il percorso interpretativo suggerito argomentando come il processo si riversi sull'intero corpo filmico, che si fa esso stesso spazio di rivelazione.
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